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Fenton e Beato primi fotografi sui campi di guerra

Divano La rubrica di storia e cultura. A cura di Alberto Olivettica
Pubblicato circa un anno faEdizione del 3 novembre 2023

Armi micidiali senza sosta uccidono inermi a migliaia nelle loro case. Operano la distruzione a tappeto di città e di villaggi. Sulla sponda del Mar Nero, sulla sponda del Mediterraneo. Uccisioni e distruzioni vengono accuratamente filmate e fotografate. Documentano sotto le telecamere cadaveri, feriti, scampati che saranno presto abbattuti, in immagini diffuse in tempo reale in tutti i paesi del mondo, casa per casa e nella rete social, a costituire un fondale permanente agli atti quotidiani e domestici che ciascuno svolge là dove le uccisioni e le distruzioni ancora non hanno corso.

Un fondale, un paesaggio di fotogrammi in sequenza che ci circonda dappresso, costituito da riprese e scatti ad ogni momento in azione. Vedere e vedere, di ora in ora, di giorno in giorno carneficine e macerie, toglie significato a quei morti, a quei crolli, a quelle esplosioni, a quelle strazianti grida. Il risultato è di assuefazione all’orrore, di inerzia emotiva, di ottundimento della capacità di giudizio.

È una condizione che all’origine della fotografia non era possibile ipotizzare. Valga, tra altri molti e del medesimo tenore, il netto giudizio che sulla fotografia come strumento di conoscenza dà Lady Elizabeth Eastlake (1809-1893). Non solo i prodotti di quella tecnica non afferiscono alla sfera delle arti, ma, anzi, proprio all’opposto delle opere d’arte realizzate in figura o espresse in parole, la fotografia è mera constatazione della realtà circostante fissata in quanto tale, dunque è documento incontrovertibile che testimonia una verità di fatto.

Per questo la fotografia è in grado di render conto di quanto, con le arti, non è possibile attestare. Così, per Eastlake, la fotografia conferisce all’immagine il crisma della verità effettuale che una rappresentazione pittorica non può in nessun caso vantare. È quanto Eastlake sostiene nel saggio Photography, pubblicato nella «London Quarterly Review» del 1857: «Per tutte quelle cose per le quali l’Arte, la cosiddetta Arte, è stata finora il mezzo ma non il fine, la fotografia è l’agente designato. Essa è la testimone fidata di tutto ciò che si presenta alla sua vista.

Che cosa sono le sue infallibili testimonianze a servizio della meccanica, dell’ingegneria, della geologia, della storia naturale, se non fatti concreti della massima autenticità e fermezza? Fatti che non rientrano nell’ambito né dell’arte né della descrizione, ma in quello di una nuova forma di comunicazione fra uomo e uomo – che non è né lettera, né messaggio, né dipinto – ma ora colma felicemente lo spazio fra di loro».

«Fatti concreti» allora, e non immagini, quelli che con la macchina fotografica si conseguono, e che, per come li designa Eastlake, dei fatti mantengono la «massima autenticità» e la consistenza, fino a determinare «una nuova forma di comunicazione fra uomo e uomo». E, per certo, questa convinzione di Eastlake relativa al carattere di verità che la fotografia assicura viene ampiamente condivisa nel corso del secolo, fino almeno ai primi del Novecento. Allora quella convinzione si apre alla domanda relativa non alla verità, ma a quello che può dirsi uno specifico vero fotografico, una domanda che sarà destinata, e rapidamente, a giungere ad una riflessione su lo specifico tratto di inganno che alla fotografia sarebbe connaturato.

Ma tant’è. Torniamo agli anni Cinquanta dell’Ottocento. Non a caso la Storia della fotografia di Beaumont Newhall, dopo aver riportato il brano di Eastlake sopra trascritto, esamina, a conferma del valore di verità che contengono, le fotografie di Roger Fenton (1819-1869) e di Felice Beato (1830-1906) eseguite, dal primo, nel 1855, sui campi della guerra di Crimea e, dal secondo, nel 1860, in Cina, al seguito delle truppe anglo francesi durante la seconda guerra dell’oppio.

In particolare, suscitarono raccapriccio e repulsa della guerra, a Londra, gli scatti di Beato eseguiti nel recinto del forte imperiale di Taku appena caduto nelle mani degli europei che, come si denunciò allora con sdegno, mostravano la disumanità di una «angosciante scena di una carneficina … con gruppi di morti e di moribondi che in ogni direzione sono offerti al nostro sguardo».

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