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Fénéon, il teorico implacabile delle macchie coloranti

Fénéon, il teorico implacabile delle macchie colorantiFélix Fénéon nel 1899 ca. in un ritratto fotografico di Alfred Natanson

Felix Fénéon, "Neoimpressionismo. Un'estetica scientifica", edizione Castelvecchi Un’antologia 1886-1892. Con linguaggio laconico, prezioso alla Mallarmé, Fénéon mette a fuoco l’estetica di Seurat e Signac, che rompe con le «improvvisazioni» degli impressionisti

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 5 marzo 2017

E’ il primo in basso a destra, in primo piano, nel pannello di destra del «dittico» di Lautrec che decorava la baraque della Goulue, la stella del can-can: glabro e ossuto, con il cinico pizzetto, Félix Fénéon. 1895: Fénéon è un reprobo nella società parigina, appena prosciolto, dopo la galera, dall’accusa di terrorismo anarchico nel cosiddetto Processo dei Trenta. Intrinseco di Mallarmé, che ha testimoniato in suo favore, è celebre nelle redazioni per la sua critica d’arte laconica, puntuta, preziosa, e per il suo esprit ‘crudele’. Un dandy, poi, se John Rewald, nel profilo che di lui ci ha lasciato, può appellarlo «l’homme qui désirait être oublié»: non per caso, nel pannello di Lautrec, figura insieme a Oscar Wilde.
La parabola di Fénéon conosce diverse evenienze («Revue blanche», 1894-1903; Galerie Bernheim-Jeune, dal 1906), ma la sua fama si lega alla ‘fortuna’ del neoimpressionismo, che è parola da lui coniata per gli «innovatori» Seurat, Signac e Pissarro in una cronaca dell’ottava e ultima esposizione impressionista tenutasi alla Maison Doré in rue Laffitte nella tarda primavera del 1886. Questa cronaca, insieme ad altre due dello stesso anno-discrimine, era stata tradotta in italiano, molto bene, da Paolo Martore nel 2015 per Castelvecchi. E adesso lo stesso Martore, stessa casa editrice, ha curato Neoimpressionismo Un’estetica scientifica (con un saggio di Simona Rinaldi, pp. 91, euro 11,50), cioè a dire gli scritti di Fénéon che, dopo il 1886 e fino al 1892, mettono a fuoco le qualità della nuova estetica – il riferimento testuale è alle Oeuvres plus que complètes di Fénéon, uscite nel 1970 a cura di Joan U. Halperin per Libraire Droz.
Sfiancati dai litigi
Mentre gli impressionisti, chiusa la stagione di gruppo, sfiancati dai litigi e dall’inedia (ma proprio nel 1886 Paul Durand-Ruel, loro mercante, gioca in America l’ultima carta, e vince), si accingono, ciascuno, a una più o meno lunga stagione di indipendenza, viene ad affermarsi, grazie a Seurat, la pittura ‘ottica’, cioè una poetica basata sulla «scomposizione scientifica del tono» e realizzata «mediante una semina di minuscole macchie coloranti» (virgolettati da Fénéon). Si tratta della realizzazione sulla tela di ricerche e scoperte di laboratorio che fanno capo ai nomi di Michel Eugène Chevreul e Ogden Nicholas Rood.
Per primi gli impressionisti, Monet sopra tutti, avevano intuito le potenzialità luminose derivanti dalla separazione dei colori; che, ricomposto sulla retina in una mescolanza ottica, il colore risulta più fresco e vibrante, mentre miscelato sulla tavolozza tende all’ottuso e al bituminoso. Fénéon, pur maltrattando gli impressionisti, in quanto a tecnica, per la loro «aura di improvvisazione», non manca di evidenziare che la strada verso l’arte quintessenziale di Seurat l’hanno aperta loro. E tuttavia, se «le loro improvvisazioni documentano magnificamente la transizione da una pittura opaca a una lucida», «è ormai tempo per opere perfette, definitive».
Fénéon sottolinea la parte avuta dal patriarca impressionista Camille Pissarro, l’unico della vecchia scuola ad accogliere la tecnica dei giovani. Parla, per la sua opera, di «incremento di potenza espressiva». Siamo sicuri? Qui sembra che la certezza di giudizio sua tipica venga a velarsi per eccesso di polemica militante: strano, non si accorge che l’arte di Pissarro, costitutivamente legata alla ‘sensazione’, in realtà, ingabbiata nel rigore scientifico del metodo neoimpressionista, si depotenzia. Lo ha spiegato meglio di tutti Lionello Venturi nel saggio che antepose al catalogo ragionato dell’opera di Pissarro, 1939. Nello scritto L’impressionismo, di quattro anni prima, Venturi aveva del resto imputato a Fénéon una certa rigidità teoretica nell’opporre «all’‘arbitrio’ nella decomposizione dei colori proprio degli impressionisti, il ‘sistema’ di Pissarro Seurat Signac». Non si può chiamare «arbitrio» la «spontaneità», contesta giustamente Venturi, pur da una posizione oggi rigida a sua volta, legata com’era alla tensione antifascista, e al grande lascito di cultura laica dell’Ottocento francese, con all’apice l’impressionismo, di cui essa si nutriva: dal che l’eccesso di sospetto, nella valutazione di Seurat (1944), verso gli aspetti della sua produzione riconducibili al simbolismo e al decorativismo fin-de-siècle. Se «il ‘pointillisme’ è il modo idoneo per dare alla luce una sua cristallizzazione architettonica», meglio che si realizzi, propugna Venturi, «sul motivo» in vista del mare a Grandcamp che nel chiuso, volentieri notturno, dell’atelier parigino: il miglior Seurat, insomma, resta colui nel quale più evidente traspare la radice impressionista.
L’ultimo Seurat, incapricciatosi delle teorie estetiche di Charles Henry, basate su una fisiologia del piacere implicante determinate stimolazioni sensoriali in relazione alle linee e ai colori (per esempio, la linea dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra è «dinamogenica», procura piacere), si sforzò di coniugare la tecnica a puntini con un’esigenza ritmico-lineare, versata al simbolico. Fénéon, pur sprofondatosi a sua volta nelle teorie di Henry, non sembra nascondersi che la strada intrapresa da Seurat possa condurre al simbolismo, cioè un tipo di arte ideologicamente opposta allo scientismo della sua posizione. Del resto, ancora vivente (morì a 32 anni nel 1891), Seurat fu descritto da Fénéon come un «Puvis modernisant»: Puvis de Chavannes risulta fondamentale per la cultura formale di Seurat, giusta la lettura 1963 di Meyer Schapiro, in contrasto con quella limitativa di Roberto Longhi 1950, dove si puntava un po’ troppo decisamente sul remoto ascendente pierfranceschiano. Il «formalismo dello stile classico monumentale» di Puvis si presta, meglio non si potrebbe, all’idealismo luminista di Seurat e alla tendenza connessa a rendere «definitive» le immagini, perpetuandone la sensazione (è Seurat il vero artista proustiano, non Monet). Via Puvis, dunque, Seurat ha già qualche commercio con il simbolismo, e tuttavia prevale nella lettura di Fénéon un’idea ottica e scientifica del pittore, anche a fronte dei suoi «cedimenti» finali. Al contrario di quel che si impone, come ricorda il saggio di Simona Rinaldi, nel recente filone di studi sul neoimpressionismo proveniente dagli Usa (Paul Smith), dove l’estetica di Seurat e gli altri, sganciata teoricamente dal sostrato impressionista, finisce per diventare tout court un capitolo dell’arte fin-de-siècle.
Verso le avanguardie
In ogni caso, il campo di ricerca più aperto riguarda le transizioni che il neoimpressionismo generò verso le avanguardie del primo Novecento: mai dimenticare che di lì giungono i fauves, Matisse in testa. In questa chiave la figura più significativa è Paul Signac, che, pur non esente anch’egli, nei primi anni novanta, da simbolizzazioni (quasi un manifesto dinamogenico è il ritratto di Félix Fénéon oggi al Moma), finirà per allentare il sistema giansenista di Seurat, rendendo più facile, ai nuovi venuti, di fare compere entro la sua opera, di trarre fuori dai toni divisi e nuclearizzati una visione fondata sull’autonomia lirica del colore. Ma è un Signac diverso da quello al quale Fénéon dedica, nel 1890 e ’91, due piccole apologie: la prima aveva mandato su tutte le furie Seurat il quale, neanche menzionatovi, rivendicava la sua precedenza. In questi scritti, Signac, con la «geometria dei moli e dei semafori marittimi», è totalmente compreso all’interno del più rigoroso assunto neoimpressionista o, secondo il suo stesso vocabolario, «cromo-luminarista». Critico e teorico a sua volta, nel 1899 Signac pubblicherà D’Eugène Delacroix au Néo-Impressionisme, e la dedica sarà per Seurat.
Fulminante e immaginoso, Fénéon ha anche il merito di stagliare le personalità dei comprimari di Seurat, Signac e Pissarro: esercizio più che necessario entro un invaso stilistico che i critici contemporanei percepivano in blocco, come «tappezzeria» o «mosaico», disabituati a una pittura basata su regole scientifiche. Nelle Proposte per una critica d’arte, 1950, commentando il recente rilancio di Fénéon a firma Jean Paulhan, Longhi consigliava di puntare l’attenzione non tanto sul trascrittore dei «calcoli fotocromatici del Dottor Henry», piuttosto sullo scrittore, «fortissimo» nel «condensare in una schedula poetico-critica l’essenza di un dipinto o di un pittore». Ed ecco «un selvaggio leale, dal talento rude e muscoloso»: Maximilien Luce. Sull’esperimento notturno di Charles Angrand: «immerso nella luce gialla della lampada a gas, l’osservatore la suppone bianca…». A proposito del problema cornici, con i neoimpressionisti divenuto cruciale, ecco quella, «coronata», di Albert Dubois-Pillet, «sulla quale circolano sincere variazioni violette» che le fanno assumere «un’assurda realtà»: «i vantaggi della cornice bianca sono palesi».

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