Faccette nere. Inni e canzoni all’origine del razzismo italiano (manifestolibri, pp. 133, euro 10) ha un titolo esplicito ma in parte fuorviante. Il volume di Felice Liperi (critico musicale, programmista RAI, docente al DAMS in vari atenei) sembra una ricerca sull’immaginario canoro-sonoro razzista delineatosi in Italia prima e durante il regime fascista. Questo è il tema, in realtà, della prima metà del testo che, invece, parte dall’attualità e si dedica ad indagare il periodo, nella seconda sezione, dal dopoguerra post-1945 fino al festival di Sanremo 2021, vinto da Mahmood.

Liperi, nella «Premessa», elenca cinque episodi di razzismo svoltisi tra il 2020 e il ‘22, per poi chiarire che «questo scritto si propone di andare indietro nelle viscere della nostra storia nazionale per raccontare come anche la canzone sia stata uno strumento di consenso per l’imperialismo cialtrone e sanguinario dell’Italia sabauda e fascista». Non basta, come accennato, perché la canzone è riaffiorata poi «nel secondo dopoguerra attraverso melodie non strumentali al potere e spesso orientate solo al banale intrattenimento. Messaggi molto popolari e amati anche quando cantavano con una descrizione ridicolizzante il corpo dell’altro o i suoi modi di esprimersi per arrivare perfino a riguardare anche una canzone nata da un’origine liberatoria, rivoluzionaria persino, il rap, che però è stata capace di esprimere i sentimenti più ostili e violenti» (pp. 8-9).

Trattiamo prima l’indagine di Liperi riguardante gli ultimi settant’anni della canzone nostrana per poi tornare, molto in breve, alla sua origine di inizi Novecento, già orientata a messaggi nazionalistico-razzistici. L’autore (in «Faccetta nera nel razzismo contemporaneo») si sofferma sulla vicenda del ‘matrimonio’ del giovane volontario Indro Montanelli con una ragazza abissina 12enne durante la guerra d’Etiopia, riemersa quando la statua del giornalista è stata imbrattata di vernice rossa, in sintonia con quanto stava avvenendo negli Usa. «(…) È importante e interessante per valutare (…) quanto poco rilevante sia stata considerata la questione del razzismo e della discriminazione razziale nella cultura italiana fino a rimuoverla, o quasi, dalla coscienza collettiva del paese» (pp. 76-77).

Seguono i capitoli «Bonghi e Watussi: canzoni e razzismo nel secondo dopoguerra» e «La questione della razza nella canzone contemporanea». Qui si parla di una continuità, nel mondo della canzone, nella “rappresentazione grottesca e ridicolizzante dello straniero” (p.79). Esempi ci sono in Bongo bongo bongo, Caravan petrol, Angeli negri, El negro zumbon… Addirittura la presenza in TV del valletto ascaro Andalù, nella popolare trasmissione L’amico degli animali con Angelo Lombardi, è un segnale in questa direzione.
Nel corso dei decenni, tuttavia, Felice Liperi segnala che – grazie anche al 1968, ai movimenti degli anni ’70, all’emergere del rock e della canzone d’autore – «sono voci sempre più isolate quelle che propongono messaggi offensivi nei confronti delle comunità immigrate, della loro cultura e della loro religione» (p.87). Importanti le pagine che si occupano delle esperienze di Napoli Centrale e del leader James Senese, di Enzo Avitabile e Pino Daniele che decretano «la fine delle differenze tra ‘bianco e nero’» (p.98). Fine circoscritta ad alcuni ambiti, tuttavia, perché canzoni di Marcella Bella (Negro, 1975), Vasco Rossi (Colpa d’Alfredo, 1980) e Giuseppe Povia (Immìgrazia, 2021) seguono la vecchia direzione e una generale, seppur più sopita, tendenza.

Il vero cuore del libro è nei due capitoli conclusivi: «Hip Hop rap omofobia sessismo e rivoluzione» e «Dal dileggio delle parole agli odiatori del corpo». L’autore sintetizza in modo efficace matrice e caratteristiche del rap: da un lato canto di orgoglio afroamericano legato alle battaglie politiche, da Malcolm X a Black Lives Matter; dall’altro fucina di messaggi maschilisti, omofobi, violenti, con la scia dei rapper assassinati. Il critico musicale ben precisa la pratica del dissing («utilizzare un brano, o una rima, per insultare e denigrare intenzionalmente un altro artista», p.110) che dall’azione improvvisativa passa, rapidamente, a diventare puro incitamento all’odio e alla violenza. Ciò è puntualmente transitato nel rap italiano, soprattutto negli esponenti «della seconda generazione (..), quella meno politicizzata e slegata dal movimento dei centri sociali» (p.112). Se da un lato trenta artisti dell’hip hop nostrano solidarizzano con la mobilitazione successiva all’assassinio di George Floyd (2020), dall’altro l’aggressività del dissing nel rap e nel trap italiano alimentano la violenza. L’ultimo capitolo si sofferma sul fenomeno, in costante crescita, degli «odiatori» sul web che non trascende la musica ma si espande nei settori più moderni della comunicazione, trasferendo il messaggio negativo direttamente sulle persone. Felice Liperi riporta le campagne d’odio contro le/i cantanti Elodie (padre italiano, madre creola di Guadalupa), Sergio Sylvestre (statunitense di madre messicana e padre haitiano), il due volte vincitore del festival di Sanremo Mahmood (madre sarda, padre egiziano).

Ma qual è l’origine di tutto questo odio razzista, sessista e contro ogni diversità? È «un retaggio figlio anche di una mai realizzata autocritica degli italiani nei confronti del passato fascista, o andando più indietro colonialista, e di una mentalità che si alimenta attraverso l’incultura della comunicazione proposta nel web» (p.124).

Torna, così, in gioco la prima, accurata, documentatissima prima parte di Faccette nere dove l’autore ricostruisce questo brodo di cultura nera lungamente alimentato attraverso l’uso della canzone e la creazione di un immaginario sonoro razzista, colonialista, sessista. Il tutto è articolato nei capitoli «La canzone nei tempi della registrazione sonora», «La campagna canora nel Corno d’Africa», «Stereotipi di femmine africane», «La canzone come strumento di consenso. Il trionfo di ‘Faccetta nera’», «Divi e autori della radio», «Razzismo colonialismo e toponomastica», «Parodie di un re africano», «Jazz e razzismo». Un libro necessario, per capire l’oggi (musicale, politico, comunicativo) indagando nelle profonde radici del passato remoto e prossimo.

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Dalla premessa di «Faccette nere»: il jazz ai tempi della registrazione sonora

..) Anche la stampa non si sottraeva a questa opera di sostegno all’italianità della musica contro i barbari invasori extra europei e in modo particolare del jazz, di cui si parlerà diffusamente più avanti, che diventò molto presto il bersaglio anche della critica musicale più istituzionale come nel caso di Franco Abbiati, giovane critico, del «Corriere della Sera» che nel1929 scriveva:
«S’avean da sbarrare le porte di casa al novello anticristo musicale. Quel supplizio degli affanni e delle perplessit atrocemente congegnato, quei repentini mancamenti di fiato, le brutali dichiarazioni rauche e sincopate della melodia creduta negra… Impossibile resistere all’impudente gragnuola d’inauditi ritmi tetri e selvaggi, violenti e melliflui fino alla nausea, lontani le mille miglia dalla nostra sensibilità, peggio che villani per nostro orecchio fine e ben educato. Il jazz costituiva un’offesa al buon gusto, una minaccia alla salute pubblica, il cardiopalma – alcuno disse la sifilide – della musica»

Il giudizio di Abbiati entra anche nel vivo della produzione musicale indicando negli strumenti utilizzati dal jazz l’elemento «degenerativo» che seppur sottinteso allude al fatto che questa degenerazione non può che essere realizzata da popolazioni selvagge e inferiori.
Conoscevamo i complessi strumentali con la quasi esclusiva partecipazione degli archi o dei plettri, dei pifferi o delle fisarmoniche. In questi ultimi anni il jazz ci ha fatto conoscere un complesso strumentale composto di saxofoni, di ottoni acuti e di esotici strumenti a pizzico mostruosamente potenziati da un’ingorda batteria di strumenti a percussione. Troppo poco per rivoluzionare l’arte musicale, men che meno per colpire d’anatema l’innocua musica negro-americana unicamente rea d’essere stata abilmente imposta (quando si dice organizzazione e suon di dollari) e pertanto ospitalmente gradita in tutto il mondo come una volta lo era, e con assai maggior merito, la nostra dolce canzone di Piedigrotta
Al di là dell’insistenza anche in campo musicale sul «complotto demo-pluto-giudaico» a cui si allude nella frase – «quando si dice organizzazione e suon di dollari» – la riflessione di Abbiati se oggi può apparire esagerata e quindi fuorviante, perché strettamente legata al suo sostegno al regime fascista, in realtà è interessante perché contribuisce a farla radicare almeno in una parte della mentalità del pubblico italiano non solo nel periodo fascista. Non a caso la ritroveremo identica nel secondo dopoguerra quando ci sarà una specie di rivolta del pubblico tradizionalista sanremese contro l’entrata degli strumenti «africani» nell’apparato esecutivo del Festival della canzone italiana giudicandola troppo «negroide» e jazz perché dominata dalla presenza di strumenti a fiato (trombe, tromboni, ecc.).

(…) In realtà per amor di obbiettività va ricordato che non tutti gli intellettuali e i musicisti si accodarono a queste posizioni…Fra questi Massimo Mila, che fu condannato a 7 anni di reclusione dal tribunale speciale fascista anche per un articolo che presentava inmodo positivo il jazz, poi anche Alfredo Casella, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, che invece videro nel jazz una testimonianza della modernità.
(…)
Già nel 1927 «con una circolare della direzione generale di pubblica sicurezza inviata ai prefetti furono vietate le «orchestrine negre» negli alberghi e nei locali da ballo sia per non creare concorrenza ai «lavoratori orchestrali» italiani, sia, soprattutto, per non offendere la «dignità e il decoro dell’arte».