Innocente e calunniato, come recitava il titolo di una mostra agli Uffizi del 2009, o «dalla fortuna sì mal trattato chi era dalla virtù sì bene onorato», come scriveva Giovanni Baglione nel 1642? Federico Zuccari (1539/40-1609) fu figura controversa già per i suoi contemporanei. Fratello più giovane del grande Taddeo, egli godette da subito a Roma della protezione del cardinale Alessandro Farnese e di tanti altri illustri committenti, e nella seconda metà del Cinquecento conquistò una fama sovraregionale, e anzi internazionale, che non ebbe forse confronti all’epoca, arrivando a dipingere nel Palazzo Ducale di Venezia, nella cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze (dove finì gli affreschi lasciati incompiuti da Vasari alla sua morte) e persino all’Escorial, chiamato da Filippo II.
Ma la sua fu una carriera costellata anche da insuccessi: Federico già nel 1569 veniva praticamente licenziato dal cantiere farnesiano del palazzo di Caprarola; egli poi inseguì per molti anni la commissione del Paradiso sempre in Palazzo Ducale a Venezia, poi dipinto da Tintoretto; una pala destinata a Bologna fu rifiutata dalla committenza; lo scoprimento delle sue pitture nella cupola di Brunelleschi venne salutato dei fiorentini con sonetti critici; infine il lavoro nel monastero reale spagnolo, come già riportava Baglione, «non diede molta sodisfazione».
Al primo di questi ripetuti smacchi, Federico rispose con la Calunnia, ispirata al celebre precedente di Apelle, un’invenzione che ebbe molto successo, attestato dalle due redazioni pittoriche autografe e da un’incisione. Il primo a fare menzione della Calunnia, un cortigiano del duca di Urbino (Zuccari, nato a Sant’Angelo in Vado, era un suo suddito), nel 1582 precisava che il cardinale Farnese «se la prese in burla». Elisabetta Giffi, nel suo stimolante Federico Zuccari e la professione del pittore (Artemide, pp. 293, e 48,00), ha quindi inquadrato nel contesto del genere burlesco la Calunnia, slegandola in qualche modo da un rapporto troppo stretto con la vicenda di Caprarola. E soprattutto ha bene interpretato il significato più profondo dell’allegoria, ovvero l’orgogliosa dichiarazione di libertà da parte di Federico, che non voleva essere solo un «abietto servitore» del cardinale (sono parole sue), ovvero voleva sottrarsi a quel rapporto di natura cortigiana che aveva per anni legato il fratello Taddeo al suo signore, sempre il Farnese.
E così il giovanile soggiorno veneziano del 1563-’65, durante il quale Federico era entrato in contatto con il mondo libero dei poligrafi, soprattutto Anton Francesco Doni, e con lo stesso Tiziano (che aveva lavorato per tutti i grandi del tempo, senza essere mai un loro cortigiano), è giustamente letto da Giffi come la chiave per comprendere il pensiero e la carriera dell’artista. Anche quelli che sono stati giudicati dalla critica come ulteriori sfoghi autobiografici di Federico, la tela con la Porta Virtutis che costò all’artista persino un processo e poi l’esilio da Roma, o l’incisione detta il Lamento della pittura, sono ora interpretati da Giffi ‘solo’ come orgogliose dichiarazioni di indipendenza intellettuale da parte di un artista che ambiva prima di tutto a presentarsi al pubblico come un virtuoso, un uomo di lettere, che infatti diede alle stampe anche componimenti in versi e un complesso trattato teorico. La tesi di Giffi è ambiziosa, e susciterà senz’altro un ampio dibattito; d’altronde lo stesso Federico lo era, tanto che per Baglione ebbe «animo maggiore delle forze».