«Siamo in contatto con il governo uscente per favorire una transizione ordinata. Abbiamo margini di tempo stringenti ma noi siamo pronti. E abbiamo le competenze e le capacità», scandisce Giorgia Meloniparlando all’esecutivo nazionale di Fratelli d’Italia riunito a Roma nel quartier generale di via della Scrofa.

COSÌ SUONA la dichiarazione d’intenti. Ma dopo la giornata appena trascorsa ci sono pochi dubbi che il dibattito a proposito del tasso di tecnici nel governo di centrodestra abbia a che fare con la necessità della premier in pectore di svincolarsi dalla morsa degli alleati. I quali a questo punto rischiano di diventare poco più che junior partner, soci di minoranza della coalizione e della squadra di ministri che esprimerà. «In questo governo sono io che ci metto la faccia», mette in chiaro Meloni parlando ai suoi. E sembra rispondere direttamente alle richieste di questi giorni da parte di berlusconiani e leghisti quando dice senza mezzi termini: «Non mi farò imporre nomi che non siano all’altezza della situazione, il governo non sarà composto per risolvere beghe interne di partito o proponendo qualsiasi nome o per rendite di posizione». Parole che gelano Forza Italia, che per bocca del coordinatore Antonio Tajani aveva chiesto un governo politico e non tecnico, e la Lega,m che fa circolare bigliettini ed elenchi di nomi che da queste parti vengono definiti con aria di sufficienza «liste della spesa».

«SE IL PRESIDENTE della Repubblica ci conferirà il mandato, il nostro sarà un governo politico – avrebbe messo le mani avanti Meloni coi suoi – Con un programma chiaro, un mandato popolare e un presidente politico. Come chiesto dai cittadini, porteremo avanti politiche in discontinuità rispetto a quelle messe in piedi in questi anni dagli esecutivi a trazione Pd». Il concetto è chiaro: la destra sale a Palazzo Chigi nel corso in quella che la leader di FdI definisce senza mezzi termini la «fase forse più difficile della storia repubblicana». Dunque, anche se ognuno degli alleati ha la legittimità di reclamare posti e avanzare candidature, servono personaggi «di alto profilo che possano vantare delle competenze di grande livello».

FRANCESCO Lollobrigida e Fabio Rampelli dicono che non si sono fatti nomi. Addirittura assicurano che al momento non risulterebbe «alcun veto su Salvini per il Viminale». Tuttavia, lo stesso Rampelli insinua un criterio generale che crea molti malumori presso gli alleati: «È presumibile che alcune caselle di governo possano essere affidate a tecnici, fermo restando che essendo il leader politico, il governo è politico». Più esplicitamente, come sostiene il capogruppo uscente meloniano al Senato Luca Ciriani, su Salvini all’interno «potrebbero esserci problemi di opportunità». Quanto a quello che ormai viene definito «lodo Meloni», in base al quale nessuno può essere destinato a una casella di governo che ha già occupato in passato, da FdI si schermiscono: «Attendiamo le decisioni di Mattarella». Ma lo stesso Lollobrigida, uno dei pochi a tenere un filo diretto con Meloni, ci tiene a precisare ancora una volta il metodo: «Partire dai veti è sbagliato – spierga – Bisogna partire dalle competenze». Il che pare l’ennesima formula per dire: meno politica più curricula.

IL SEGRETARIO leghista pare essere ormai consapevole che le sue ambizioni all’interno non trovino terreno fertile: al termine del consiglio federale di martedì scorso ha incassato la candidatura di facciata per quello che persino Giancarlo Giorgetti ha definito il suo «posto naturale» eppure per la prima volta ha ammesso di essere disponibile per «fare quel che serve». Le alternative per lui sarebbero il lavoro, lo sviluppo economico, le infrastrutture. Ma a questo punto dalle parti di via Bellerio fanno capire di considerare indispensabile che almeno a Salvini venga riconosciuta la carica di vicepremier. Da FdI si dicono certi che una soluzione verrà fuori. Sono rassicurazioni che vengono dispensate con il tono di chi intende sedersi al tavolo di coalizione più per dare le carte che per cercare una mediazione.