«Io non amo molto la ceramica. Per me la ceramica è un pasticcio. È una cosa anfibia e sotto sotto c’è sempre un piccolo imbroglio perché non puoi mai sapere esattamente quello che fai. C’è un super regista che è il fuoco, che ti monta sulle spalle… e alla fine una virgola ce la mette lui». Imprevedibilità dell’esito e mancanza di controllo sulla materia, sperimentazione ma anche «l’avventura del pezzo ceramico che entra amorfo nella fornace e ne esce vestito a festa: cosa di un’eccitante gioia, un limite indeciso fra i sensi e la bellezza».

ALLA CERAMICA di Fausto Melotti, instancabilmente votato a sperimentare e per lo più indifferente alla scelta di specifici materiali a favore della loro modulazione e plasticità è dedicata la mostra Fausto Melotti. La ceramica (Lucca, Fondazione Ragghianti, fino al 25 giugno, a cura di Ilaria Bernardi in collaborazione con Fondazione Fausto Melotti e Museo della ceramica di Faenza).
Una laurea in ingegneria (1924) e una grande passione per la musica, Melotti vede, con Fontana, lavorare Wildt a Brera e qui, osservando il tormento e la perfezione dei lisci marmi wildtiani, apprende come desustanziare la forma, svuotarla di peso. In realtà alla produzione in ceramica si dedica con assiduità dal 1945 al 1960 anche se fin dagli anni trenta, tramite Giò Ponti, fa piccole sculture per la Manifattura Ginori.
Anno di svolta il 1948: Ragghianti lo include in Handicraft as a fine art in Italy a New York, è presente alla XXIV Esposizione internazionale d’arte a Venezia e Lisa Ponti scrive su Domus delle sue ceramiche. Le Korai (1953) hanno vesti coperte da larghe campiture di puntini e cerchietti diseguali e approssimativi ma regolarmente ravvicinati come fossero impronte di qualche utensile da cucina.

Fausto Melotti, Bambini, 1960 circa, collezione privata, courtesy Hauser & Wirth, photo courtesy Fondazione Fausto Melotti, Milano
PICCOLE IMPRONTE regolari e irregolari si ritrovano nelle lastrine al pianterreno de Il Museo, teatrino del 1959: tre esili figure al piano di sopra si appoggiano e siedono su sedili casuali mentre una quarta, scivolando lungo la parete, si sposta di sotto.
Tavolette dai caratteri cuneiformi che sono anche ne Il teatrino di Scheiwiller (1962): semplicemente appoggiate alle pareti di quelle case in cui la parete frontale – come nella città calviniana di Armilla – non è più: qui sono le relazioni fra le persone che creano lo spazio. Noi ne osserviamo la vita interna, le scene semplici, piccole e dense di significato.

CON CALVINO – che dopo averlo conosciuto sente una relazione fra le sue sculture filiformi e le città sottili, rarefatte, «sui trampoli» delle sue Città invisibili – Melotti percorre in lungo e in largo il tema della leggerezza: nelle sue famiglie di «animali sbagliati» ci sono giraffe esilissime e smilzi leoni anzi Sol-Leoni, ci sono pavoni/vasi dal collo lungo e cavallini filiformi, bambini assorti su carretti leggeri come fogli di carta o vetro sottile. Un campionario di vita fantastico evanescente ma anche molto semplice.
La leggerezza si accompagna però alla pragmaticità concreta del lavoro con Giò Ponti che dagli anni Cinquanta progetta– per quella che lui chiama la joie d’y vivre – ville in Venezuela, (Planchart e Arreaza a Caracas) e in Iran (per Shafi e Vida Namazee a Teheran).
Architetture spettacolari con grandi ambienti interni ed esterni scenografici nei quali qui e là splendono, specie nei patii, gli intarsi a bassorilievo di Fausto Melotti. Ancora con Giò Ponti sul Conte grande (erano quelli i decenni di grandi transatlantici come l’Andrea Doria, il Conte Biancamano, l’Oceania e l’Africa): Ponti ed Edina Altara dipingono su un grande pannello di cristallo l’Allegoria del viaggiare (1950): ai lati dello scalone del transatlantico due grandi cariatidi di Melotti in ceramica colorata.

IN MOSTRA CI SONO anche alcuni suoi quaderni quadrettati con schizzi e annotazioni: oggetti lunghi e magri coi quali non si riuscirà a fare alcunché. Tazzine dalle quali non si riesce a bere e brocche dalle quali è difficile versare per non parlare dei vasi/pavone, più adatti a fare davvero i pavoni nel giardino dello studio di via Leopardi a Milano (come li mette lui una mattina) piuttosto che a contenere dei fiori: gli oggetti di uso quotidiano che acquistano un valore diverso scivolando in un’altra dimensione.
Sono sculture: le puoi usare ma è difficile. «So di altri architetti giovani che da un anno rinunciano a raccogliere lo zucchero che rimane sul fondo delle sue tazzine da caffè, lunghe e strette come cilindri, ma che non rinuncerebbero a usarle per nulla al mondo», così scrive su Domus Lisa Ponti in quegli anni, del mago Melotti: questi giovani che ostinatamente e appassionatamente usano tazzine da caffè senza però riuscire a raccogliere lo zucchero col cucchiaino. Innamorati di quei non-oggetti de-funzionalizzati.

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