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Fase due. Fare finta di essere normali nelle città che riaprono

Fase due. Fare finta di essere normali nelle città che riapronoShopping in centro a Milano – LaPresse

Ripartenza Si torna a prendere un caffé a turno, a cenare con la mascherina, a tagliarsi i capelli e ad assistere distanziati alla messa. Sulle spalle dei lavoratori tutto il peso della contraddizione tra vita e lavoro, mentre i politici non nascondono timori e si fanno il segno della croce: "C'è molto movimento in città, che Dio ce la mandi buona" ha detto il sindaco di Bari De Caro. Il ministro per gli affari regionali Boccia: "Inizia la settimana più difficile, siamo tutti preoccupati". Tanto più crolla il pil, tanto più si vuole rilanciare la "crescita". Ma il 30% dei bari e ristoranti rischia la chiusura. Solo nel commercio a rischio fino a 300 mila posti

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 19 maggio 2020

Riaprire perché un passo alla volta «l’Italia tornerà a correre» ha detto il premier Conte. E così rischia di contagiarsi al lavoro e portare il virus a casa, mentre la sua economia è avviata verso una perdita a doppia cifra del Pil nel 2020 e una recessione con possibili ondate di fallimenti e disoccupazione di massa. Ieri, giorno della fase due punto due dichiarata dal governo e dalle regioni impazienti di riprendere il ciclo di produzione del capitale, mentre il capitale non circola e si rischia una nuova fermata, hanno riaperto mercati, ristoranti, negozi, centri estetici, parrucchieri e barbieri, tatuatori, alberghi, strutture ricettive all’aria aperta, zoo e campeggi.

DAL 25 MAGGIO lo faranno anche palestre, piscine e centri sportivi. Dal 15 giugno cinema, teatri concerti e centri estivi. Nonostante l’intesa sulle linee guida e i protocolli di sicurezza tra Stato e regioni, il campano De Luca sostiene di non avere firmato, le regioni andranno per conto loro. In Emilia Romagna stabilimenti aperti dal 25 maggio, nel Lazio saranno ancora chiusi; la Liguria apre tutto, anche le palestre, mentre in Lombardia saranno chiuse fino a 31; in Toscana hanno riaperto i negozi, in Piemonte bar e ristoranti lo faranno dal 23. Ieri è stato comunque grande lo sforzo di tornare a una vita «normale». Tuttavia il rischio è di far finta di essere normali.

L’IMPERATIVO di tornare a produrre in una crisi pandemica ha piegato i dubbiosi come il presidente della regione Toscana Enrico Rossi: «Le riaperture le avrei fatte graduali, magari sarei partito prima, ma così non è». C’è una concorrenza tra regioni: «Io ho fatto la mia battaglia – ha aggiunto – poi però non me la sento di tenere la Toscana in una posizione differente dalle altre regioni». »Di fatto ho autorizzato tutto» ha detto il presidente del Veneto Luca Zaia. È anche emerso uno scontro ideologico tra «aperturisti» e refrattari. «Ogni tanto leggo che sarei molto aperturista. Non c’è regione italiana che abbia avuto più restrizioni dell’Emilia Romagna. Siamo stati i primi a chiudere bar e ristoranti e ad impedire il jogging» ha detto il presidente della Regione Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini.

I MERITI paradossali degli uni, e la coscienza dolente degli altri, rafforzano la sensazione per cui la riapertura stia avvenendo al buio. «Dobbiamo essere tutti molto preoccupati perché la settimana che sta iniziando sarà la settimana più difficile» ha detto il ministro degli affari regionali Francesco Boccia. Più esplicito è stato il suo corregionale Antonio Decaro, sindaco di Bari: «C’é molto movimento: che Dio ce la mandi buona». In pratica, è un salto nel vuoto con segno della croce.

TANTO PIÙ IL PIL crolla, tanto più cresce la spinta a riaprire le frontiere esterne, non solo quelle tra le regioni. Ieri il ministro degli esteri Di Maio ha polemizzato con l’ omologo tedesco Heiko Mass secondo il quale in Italia e Spagna ci sarebbero «molte limitazioni». È vero nel secondo caso, non nel primo. «Dal 3 giugno l’Italia ripartirà a 360 gradi» ha detto Di Maio. In questo caso il problema è il tracollo dell’industria turistica. Per riaprirla, forse dal 15 giugno, si è disposti a importare rischi dall’estero, ma a segnare un punto nella competizione nel settore.

IL PANICO FREDDO che congela le lavoratrici e i lavoratori deriva da una sensazione: non esistano ancora strumenti certi per fermare un ritorno del contagio. E sulle loro spalle i cittadini dovranno portare il peso della contraddizione tra lavoro e salute. In Lombardia, la speranza è che «non si debba pagare un prezzo troppo alto in termini di salute – ha detto Alessandro Solipaca, direttore scientifico dell’Osservatorio Osservasalute, dell’Università Cattolica di Roma, coordinato da Walter Ricciardi – La fase due metterà alla prova la capacità organizzativa di regioni e il buon senso dei cittadini, poiché interviene in un momento in cui i nuovi contagi sono ancora un numero a due cifre per undici regioni (Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Toscana e Veneto) e il rischio di una ripresa dell’epidemia non è trascurabile».

Ieri il presidente della Lombardia Fontana ha detto che avrebbe voluto fare più tamponi, ma non c’erano i reagenti. «Il commissario Arcuri li sta cercando, ha fatto un bando. Se troverà i reagenti ce li manderà». Non è pronto il chiacchierato sistema di «tracciamento» che rischia di mettere seriamente a rischio la privacy. Sarà pronto nei prossimi giorni il «documento di valutazione d’impatto» per la protezione dei dati dell’app «Immuni» al quale sta lavorando il ministero della Salute.

MENTRE tornano a circolare milioni di persone si rafforza il timore di un’ondata di fallimenti, insieme alla generale perdita del lavoro e del reddito. Per Confcommercio ad aprile i consumi sono scesi del 47,6% approfondendo il crollo del 30% di marzo. Nelle prime settimane gli esercenti potrebbero resistere, usufruendo delle casse integrazioni, e delle scorte di magazzino. Ma già nel pieno dell’estate, a causa del crollo dei fatturati, potrebbe arrivare il rovescio. Il 30% di bar e ristoranti sono a rischio chiusura con la «fase due». Ciò equivarrebbe, sostiene una ricerca Bain&Company, a 250-300 mila posti di lavoro in meno solo nel commercio.

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