Statua loricata dell’imperatore Traiano scoperta a Ostia Antica nell’ottobre 1938 nell’edificio pubblico poi denominato «Schola del Traiano»
Statua loricata dell’imperatore Traiano scoperta a Ostia Antica nell’ottobre 1938 nell’edificio pubblico poi denominato «Schola del Traiano» – Ostia Antica, Museo Ostiense
Alias Domenica

Fascismo: archi trionfali, scavi, palazzi, Roma mito

Storia contemporanea Un volume collettivo («Costruire la nuova Italia», Viella) propone diversi casi di studio sul riutilizzo del Classico da parte del regime. Da Ostia a Taranto alle colonie in Africa, non solo stereotipi: il quadro è più sfaccettato
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 2 giugno 2024

Il nesso tra L’Italia di Mussolini e gli italiani nuovi è buon tema per una ricerca sul fascismo: m poco si troverebbe in una dimenticabile raccolta, con appunto quel titolo così impegnativo, curata da Gaspare Squadrilli (Pinciana, 1929). Il quesito è importante. Il regime indusse nel paese innovazione solo proclamata o effettiva? Convissero nello stile fascista, come è noto, conservazione e cambiamento, e a chiarirne la combinazione servono sforzi concentrici e attento studio dei segni. Così hanno fatto due incontri, organizzati tra Pisa e Newcastle, da cui il volume Costruire la nuova Italia Miti di Roma e fascismo (a cura di Fabrizio Oppedisano, Paola S. Salvatori e Federico Santangelo, Viella, pp. 392, € 32,00). I saggi più rilevanti propongono casi di studio capaci di cogliere implicazioni maggiori del tema, affrontato da lati differenti: dall’archeologia all’architettura, dal diritto agli studi di antichistica, con aperture verso l’estero, in un dialogo tra storici del passato e della contemporaneità. Tra monoliti massicci e granitiche convinzioni, il fascismo risulta più sfaccettato e mutevole, di quanto la retorica del tempo e taluni stereotipi facciano supporre.

In quel contesto, la «casta» degli antichisti (gelosa del prestigio, ma non sempre pura) rivendicò con molta determinazione spazi, prebende (e potere) da una politica vogliosa di legittimazione. Si parte dai numerosi archi trionfali, permanenti o provvisori, eretti in Italia (dove non erano costruiti dai tempi del milanese arco della Pace) e in colonia, riproponendo con la monumentalità «romana» un’immagine trionfale della nuova Italia. Al medesimo scopo mirava anche la ricerca archeologica, spesso strumentalizzata. A Ostia, per esempio, alcuni risultati di scavo furono manipolati per ottenere uno «scenario» adeguato alla (mai tenuta) E42. Venne pure «inventata» la sede per un collegium, visto come antenato delle corporazioni, care al regime: si studiarono persino possibili legami teorici e storici tra la fase antica e il nuovo ordinamento corporativo. I risultati furono modesti: ma l’impegno profuso mostra che è bene indagare seriamente la cultura del periodo fascista. Non vi furono solo trionfali prefazioni e «pensieri non pensati»: l’ideologia determinò l’interpretazione dei dati, dando forma a «fattoidi» che non evaporarono a fine luglio del 1943.

Per l’architettura si considera il tormentato concorso per il palazzo del Littorio, destinato a Via dei Fori imperiali e poi approdato, con ben minore impatto, alla Farnesina (è l’attuale MAE).

Le proposte oscillavano tra soluzioni moderne e altre utopistiche o inutilmente scenografiche, con esplicito richiamo ai valori della «romanità». Edilizia e monumenti sono tra i migliori esempi per misurare le persistenze del regime (si pensi a I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione, a cura di Giulia Albanese e Lucia Ceci, Viella 2022). Emblematico il caso di un monumento a Taranto (il cui studio ha fatto ritrovare un discorso di Mussolini non compreso nell’Opera omnia): concepito per ridisegnare in termini più «romani» la storia antica della città, fu terminato nel dopoguerra, in un contesto repubblicano, differente dalle intenzioni originarie. Politici erano anche gli spunti desunti dalla «redenzione» dalle sabbie delle antiche città di Tripolitania e Cirenaica: si esibiva il carattere italiano e «romano» dell’impresa, ma questa «archeologia simbolica» e la valorizzazione anche turistica dovettero vincere ritrosie e gelosie (qualche archeologo non voleva che le scoperte fossero subito pubblicate, né pubblicizzate. Recente è la consapevolezza che quell’archeologia coloniale segnasse l’esclusione dei nativi, ridotti al più a sfondo per la «resurrezione» degli antichi resti promossa dall’Italia occupante.

Ulteriori elementi derivano dallo studio delle istituzioni, primo tra tutte l’Istituto di Studi Romani, attivo collegamento tra regime e chiesa, tra fascismo e antichisti. La sua azione divulgativa assorbì molto impegno e molti denari: a parte le pubblicazioni, resta un archivio, che da qualche tempo offre interessanti squarci sulla prassi, fra politica, amministrazione e cultura. La propaganda della «romanità» fu fatta anche con cicli di conferenze che coinvolsero personalità diverse, con studiosi disposti a subire pedanti controlli dei loro testi (come accadde al giovane Arnaldo Momigliano): così funzionavano gli «adeguamenti non richiesti» con i quali il fascismo si insinuò nelle coscienze. Alcuni, si sa, aderirono più profondamente perfino alla prospettiva razziale e nazionale grata al regime: Emanuele Ciaceri (1869-1944) cercò di definire che cosa in Magna Grecia e Sicilia fosse autoctono, o invece «mediterraneo», o «romano».

La nuova Italia ispirata alla «romanità» doveva distinguersi anche per il ritorno alla pratica del latino, lingua lictoria, in contesti pubblici e ufficiali: oltre a iscrizioni su monumenti e a discorsi fiorì una produzione poetica (non guidata dalla Musa) con carmi In Benitum ducem, oggi imbarazzanti non tanto per il tema politico. Dell’edificio nuovo faceva parte anche la Chiesa, che non si confrontò con il regime solo sul tema della Conciliazione. L’impegno contro il bolscevismo e contro la plutocrazia condusse molti religiosi a lottare per un’Italia più cristiana perché fascista e romana. Con la legislazione antiebraica e la guerra questo fronte si spezzò (come nel caso di Schuster), ma rimasero alcuni preti in appoggio pure della causa repubblichina.

Che fosse mobilitata la stampa, dai fogli agli atti accademici, è ben noto: il quadro si completa con lo spoglio di collezioni anche minori. Ecco allora un periodico destinato ai Fasci italiani all’estero, ornato di un motto virgiliano piegato alla propaganda nazionalista: anche ai governi stranieri e all’emigrazione italiana era ammannita una «romanità», valorizzando prima l’universalità di Roma poi, negli anni di guerra, la forza nazionale dell’Italia fascista, con sempre più pesante manipolazione. Il rinnovamento d’Italia passava dunque per la riproposizione del passato, adattato alle esigenze dell’ora presente. Ottimo pretesto furono tutti gli anniversari, e tra essi i bimillenari «romani» (Virgilio, Orazio, Augusto), che generarono manifestazioni anche all’estero, in forma ora celebrativa ora spettacolare ora di esibizione, ma comunque capaci di generare interesse verso l’erede autoproclamata di tanta grandezza: anche se qualche iniziativa locale non seguì l’agenda cara al regime, nel complesso le iniziative augustee mostrano come prima della guerra, il regime fascista godesse di favore all’estero, poi cancellato dopo il 1939. Naturalmente, i contesti politici locali erano importanti: la risonanza del «classicismo» fascista nella Spagna franchista fu, per evidenti motivi, maggiore e però ripensata in prospettiva del regime che era prevalso nella sanguinosa guerra civile.

La propaganda culturale antichizzante fu una forma di «soft power» che ebbe riflessi politici concreti, con la «romanità» messa al servizio di una concezione geopolitica dell’Africa coloniale in cerca di una terza via tra i modelli britannico e francese. Non deve stupire che tali logiche tornassero, per continuità di persone e di pensieri, anche nel dopoguerra. I contributi raccolti in questo volume rappresentano bene, dunque, il polimorfismo dell’ideologia fascista, anche attraverso il riflesso dei richiami all’antico. Il dopoguerra presenta un elemento di discontinuità, riconoscibile negli attuali di movimenti postfascisti: il richiamo al mondo antico non è tanto deformato, quanto impoverito, curvato a espliciti toni razzisti. Dietro le pagine anche più compromesse della «romanità» fascista vi era dunque più conoscenza, e forse più cultura: il tentativo di plasmare la nuova Italia partendo da quella antica, opportunamente ridisegnata, non ha lasciato traccia vistosa.

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