Visioni

«Farha», la storia della Palestina negli occhi di una ragazza

«Farha», la storia della Palestina negli occhi di una ragazzaUn'immagine dal film

Festa di Roma L’esordio della regista giordana Darim J.Sallam, un’opera potente per ritrovare la voce di un popolo. Il 1948, l'occupazione israeliana, l'erranza apolide, passato e presente si concentrano nel corpo e nel vissuto della protagonista

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 17 ottobre 2021

Rivolgersi al passato per parlare del presente. Fissare lo sguardo su un anno spartiacque per la Palestina e constatare che, oltre settant’anni dopo, nulla è cambiato. Ambientare una storia nel 1948, quando gli inglesi se ne stavano andando e gli israeliani iniziavano la sistematica devastazione di una terra e di chi fino a quel momento ci aveva vissuto, per dire che da allora il popolo palestinese continua a soffrire per un’occupazione che sembra non avere termine. Ritrarre, attraverso il personaggio di un’adolescente, la tragedia ma anche la determinazione di un’intera popolazione costretta all’erranza e alla condizione apolide (come aveva sintetizzato «per sempre» Tawfiq Saleh ne Gli ingannati, tratto dal romanzo Uomini sotto il sole dello scrittore palestinese Ghassan Kanafani). L’adolescente si chiama Farha e il suo nome dà il titolo al film di Darin J. Sallam (alla Festa del cinema di Roma), regista giordana all’esordio con un’opera di grande maturità, potente, densa, struggente.

PUR SE NON dichiarate, sono tre le parti che compongono Farha e che hanno per set un villaggio palestinese (ricostruito in Giordania). Tre parti, ovvero altrettanti periodi nella vita di una quattordicenne che, nel volgere di un breve, anche se indeterminato, tempo vede la sua quotidianità felice, l’amicizia con una coetanea, il desiderio di studiare, svanire davanti ai mutamenti storici che la costringeranno (letteralmente, nel buio della cantina di casa) a isolarsi, per volontà del padre, per sfuggire alle rappresaglie, e infine a mettersi in cammino, da sola, per le strade del villaggio distrutto e senza più abitanti.
La prima parte è la descrizione di un microcosmo sociale rurale. Tanti personaggi entrano e escono dalle scene, fanno da «coro» a Farha. Lei ama leggere, mangiare fichi seduta sull’altalena insieme all’amica del cuore, rifiuta il matrimonio obbligato con un giovane, ha un bel rapporto con il padre, al passare dei soldati inglesi in ritirata unisce le mani come impugnando una pistola contro di loro (e quel gesto tornerà al termine della seconda parte, ma con una vera arma). Basta però un istante e tutto cambia. Irreversibilmente. Il villaggio viene attaccato, il padre va con altri uomini a combattere e chiude la figlia nella cantina-dispensa dicendole che tornerà. È l’inizio della lunga parte centrale, tutta girata nello spazio ristretto del rifugio. Farha non può uscire da lì e non lo fa neppure il film. Resta accanto a lei. Bisogna abituarsi al buio, a riconoscere le cose, a trovare oggetti indispensabili come una lampada a olio, individuare qualche riserva di cibo, mentre il tempo diventa un concetto astratto.

IL CORPO di Farha si disidrata, è sporco, stanco. Solo uno spiraglio nel muro, un «buco-occhio», le permette di vedere la luce, un frammento di cortile. E di essere testimone, riuscendo a trattenere le urla, del massacro di una famiglia rifugiatasi in quel posto compiuto da militari israeliani, tra cui una donna. Farha era già sicura di sé, ora lo diventa sempre di più, sa che può contare solo su se stessa. E, grazie alla pistola trovata tra dei sacchi, scardinerà la porta, uscirà e vedrà quel che nessuno avrebbe mai voluto vedere e sentire: tutto è in rovina e c’è un silenzio di morte.

ED ECCO l’epilogo (la terza parte), la ri-nascita di Farha, il suo corpo ripulito nelle acque di un ruscello, la sua camminata, filmata di spalle, mentre avanza nella terra arida e deserta. Farha «è» la Palestina, la incarna. Come la Palestina, Farha non ha più una casa, è sola, orfana (non ritroverà mai il padre, spiega una didascalia alla fine, basandosi il film su una storia vera), abbandonata, ma non sconfitta.

Karam Taher, esordiente, è bravissima nel rendere gli stati d’animo e fisici della giovane protagonista, i suoi passaggi da adolescente a donna che si notano tanto nel corpo quanto in un volto che la regista inquadra spesso in primo piano. Sallam ha un tocco sensuale nel filmare Taher, nel muoversi negli spazi chiusi e negli esterni, costruisce una rappresentazione intensa e intima e fa di Farha un personaggio moderno, attuale, vibrante, di carne e sangue, materico e pulsante. In un film che fa anche venire in mente il cinema militante di Mai Masri e che, pur concentrandosi su Farha, dà rilievo a ogni personaggio. Si pensi al padre, lacerato nelle sue scelte, ai parenti in visita, all’amica e alla separazione forzata quando, nel caos dell’invasione, Farha decide di rimanere accanto al genitore e non partire più con lei e la sua famiglia, rinunciando a studiare. Sallam dà forma a questo materiale esplosivo con morbidezza, procede senza inciampi, fa magnificamente comunicare le tre parti in un crescendo di tensione e di lucidità. Farha ci ha fatto scoprire una cineasta di talento da non perdere di vista.

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