L’inizio, un bambino inseguito dai lupi di notte, nella neve, come una concitata fiaba di paura, è il punch emozionale, perfetto, per entrare nel mondo della Stanza delle meraviglie. Un mix di dolore, terrore, senso di abbandono e isolamento che ricorda non poco l’inizio di un altro film sulla solitudine, la proiezione fantastica e il rollercoaster emozionale dell’infanzia, Nel paese delle creature selvagge. Come l’adattamento di Spike Jonze da Maurice Sendak, anche il nuovo lavoro di Todd Haynes è tratto da un libro per ragazzi, l’omonima graphic novel di Brian Selznick, autore di The Invention of Hugo Cabret.

Per il regista di Carol, spesso attratto dalle stilizzazioni fiammeggianti del melodramma, La stanza delle meraviglie è il primo film di avventura. Anzi, di avventure, dato che il racconto si svolge su due storie parallele, destinate a incontrarsi tra i grattacieli, le townhouse, i ponti e i parchi della New York in miniatura commissionata dall’urbanista Robert Moses per la mitica World Fair del 1964, e oggi custodita al Queens Museum. Lontano parente del produttore di Via col vento e di Rebecca, Selznick incorpora nei suoi libri una vocazione istintiva per lo sguardo e la meraviglia del cinema. E il doppio percorso narrativo della Stanza delle meraviglie si offre per una doppia traduzione di quello sguardo.

L’anno è il 1977. Ben (Oakes Fegley) è un dodicenne del Minnesota che vive in un vuoto stregato dal papà che non ha mai conosciuto e dalla recente morte della mamma (Michelle Williams), bibliotecaria, con una passione per Oscar Wilde («siamo tutti nati nelle fogne, ma alcuni di noi guardano alle stelle») e Ziggy Stardust/David Bowie (Ground Control to Major Tom…). Segretamente in visita alla casa di lei (adesso sta con la zia e un cugino), Ben trova tra le pagine di un libro, che celebra il primo museo come un armadio delle meraviglie, una chiave che crede lo porterà a suo padre.

Ma, colpito da un fulmine che si è infilato nella linea del telefono durante un temporale, si sveglia all’ospedale, sordo. Nel New Jersey del 1927, Rose (Millicent Simmonds), dodicenne anche lei, non può sentire dalla nascita. Vive, spesso sola, in una casa grande e abbiente, da cui esce volentieri per andare al cinema; e, mentre l’arrivo del sonoro incalza, coltiva una fervida passione per la star del muto Lillian Mayhew (Julianne Moore).
Aiutato dal suo geniale direttore della fotografia, Ed Lachman, Haynes crea per i bambini due mondi visivamente diversi tra loro –in bianco e nero (come il muto e i disegni a matita di Selznik, evocati anche nelle inquadrature) quello di Rose, nei colori ipersaturi della pellicola dei seventies quello di Ben.

Accomunati dalla mancanza dell’udito, che accentua il loro isolamento, a cinquant’anni di distanza uno dall’altro, i due bambini condividono anche una fuga a New York, che ci dà alcune delle sequenza più magiche. Le avventure dei due bambini –nella città estranea e piena di sorprese – che ricordano quella del Richie Andrusco nel Piccolo fuggitivo, di Morris Engel e Ruth Orkin, uno dei grandi film su New York, che chiaramente il regista conosce benissimo.