Visioni

«Fantastic Machine», l’ambiguità dell’immagine che ridefinisce la storia

Una scena da «Fantastic Machine»Una scena da «Fantastic Machine»

Al cinema Il documentario di Danielson e Van Aertryck con la voce di Elio Germano passa in rassegna alcuni dei momenti cruciali che hanno posto fine a un'epoca in relazione al cinema

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 9 maggio 2024

Presentato al Sundance e alla Berlinale, Fantastic Machine esce nelle sale italiane con la voce narrante di Elio Germano. Il documentario di montaggio diretto da Axel Danielson e Maximilien Van Aertryck è la storia di un viaggio che ha inizio nel 1828 quando Joseph Niépce «riesce a fissare un’immagine che appare nell’oscurità». Un lungo percorso di invenzioni, scoperte, studi ed esperimenti che producono stupore e allarme, piaceri e inquietudini. Poi, come accade spesso, dall’ingenuità si passa al consumo sfrenato, e alla classica malizia del mercato. E allora da quelle fotografie che appartengono a un passato non tanto lontano, si giunge all’odierna proliferazione di video e a quel linguaggio sgrammaticato che occupa grande spazio nelle nostre esistenze.

Fantastic Machine, che tra i produttori esecutivi vanta il regista svedese Ruben Östlund, si cimenta con le più classiche domande intorno al senso dell’immagine, passa in rassegna alcuni dei momenti cruciali, cita le cesure che hanno posto fine a un’epoca per avviarne un’altra. E così, attraverso il susseguirsi di materiali di repertorio, torniamo a chiederci se sia la realtà a sottomettersi alle esigenze narrative o la macchina da presa a seguire la vita, in un affannoso e vano pedinamento. Ad esempio, quando Leni Riefenstahl nel 1934 realizza Il trionfo della volontà, appare come un tragico paradosso che il raduno dei nazisti per celebrare il Terzo Reich possa essere scambiato per una grande messa in scena cinematografica, a sancire la definitiva estetizzazione della politica applicata dai totalitarismi.

È uno dei passaggi decisivi del film di Danielson e Van Aertryck. I due autori espongono i capitoli fondamentali di una teoria critica dell’immagine e nel loro sorvolo enciclopedico, dopo le parole della regista di Olympia, montano le riprese fatte dalle forze alleate nei campi di concentramento, ricordando didascalicamente (e idealmente) a Riefenstahl che la festa abilmente riprodotta con grande sfoggio di tecnica, ebbe degli esiti reali e nefasti.

IL CINEMA si muove sempre dentro un complesso dualismo, tra il riferirsi a se stesso (seguendo le proprie regole e finalità) e l’interessarsi ad altro, a ciò che osserva, che rapisce e deforma con i suoi strumenti. Dunque, anche le immagini dei lager pongono un grave problema. «Come faremo, dopo tutta quella propaganda di guerra, a convincere il mondo di quello che abbiamo visto»? Chiede la voce narrante. Cioè, come si potrà dimostrare l’autenticità di qualcosa che appare come inedito e che non risulti il frutto di una contro-propaganda, quasi che a girare quelle sequenze vi sia un’altra Riefenstahl? Una domanda che dovrebbe unirsi necessariamente a un’altra: si può di quell’orrore indicibile non farne un oggetto spettacolare?

Dal cinema alla televisione e poi alla Rete è un alternarsi senza tregua di regimi e resistenze, restaurazioni e rivoluzioni, di svaghi, stupidaggini e conoscenze, di intenti istruttivi e di impegno sociale, di verità e mistificazione. E il lavoro di Danielson e Van Aertryck finisce, a sua volta, per cadere nella trappola, come ipnotizzato da un incantesimo.
D’altro canto, nessuno può trascendere il mondo della doxa. È il ripetersi del Mito della Caverna platonica. Già perché nelle manie di grandezza di chi produce e consuma immagini, in questo delirio autoreferenziale, si tende a dimenticare che la vita è da sempre calata nel caos, ben prima che Louis Daguerre immortalasse un uomo che si faceva lustrare le scarpe.

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