C’è un fantasma che aleggia sulla moda e si chiama l’irrilevanza del direttore creativo. Per chiarire, il direttore creativo di un marchio di moda è lo stesso che fino a pochi anni fa si chiamava designer e prima ancora stilista. Lo stilista, diventato fashion designer per l’esigenza di collegare la moda al progetto industriale, e poi direttore creativo perché si doveva prendere cura dell’immagine e del prodotto dell’intero mondo che si riferisce alla griffe, ha assunto un’importanza enorme dalla fine degli anni Novanta in poi, quando i grandi gruppi proprietari di veri agglomerati di Maison storiche, si sono resi conto che occorreva una persona di riferimento che trasferisse la propria visione – e spesso anche la propria personalità – nel prodotto che doveva essere accettato da un numero di consumatori via via ingranditosi grazie alla globalizzazione.

Gli esempi più riconoscibili partono dalla storia dei dieci anni di Tom Ford con Gucci e da quella di quindici anni di Nicolas Ghesquière per Balenciaga. In questi due casi, direttore creativo e marchio sono diventati coincidenti, anche se avevano nomi diversi, fino a un’accettata sovrapposizione, quasi che il direttore creativo avesse due cognomi, il proprio e quello del marchio. Diverso nella forma ma uguale nella sostanza sono stati i quattordici anni di John Galliano per Christian Dior e, in una certa e definitiva misura, i cinque anni in cui il mai troppo rimpianto Alexander McQueen è stato al timone creativo di Givenchy. Però, è l’impronta di Galliano ad aver talmente trasformato il vissuto del marchio che ancora oggi, dopo altri due direttori creativi che gli sono succeduti (Raf Simons e l’attuale Maria Grazia Chiuri) dal suo licenziamento nel 2011, molti vivono nel ricordo nostalgico del «suo Dior».

Da un paio di anni, però, questa personalizzazione del direttore creativo appare in disgrazia. E l’evidenza arriva proprio da un altro personalizzatore di marchi altrui, quel Raf Simons che aveva dato a Jil Sander la propria impronta. La scorsa settimana, Simons, che ha lasciato Dior dopo tre anni nel 2015 lamentando un super lavoro che non dà spazio alla creatività, ha debuttato come Chief Creative Officer da Calvin Klein. Il nuovo titolo, una specie di direttore dei direttori creativi delle varie linee, può sembrare un po’ macchinoso, ma è un altro modo per dire che questa figura è un coordinatore dell’universo a marchio CK (abiti, jeans, biancheria intima, profumi e forse anche le shopping bag, cioè i sacchetti dei negozi).

La collezione di esordio, per la donna e per l’uomo, che Simons dice aver dedicato alla storia del marchio, anzi alle origini del marchio nato nel 1968 dallo stilista e imprenditore americano Calvin Klein, evidenzia come oggi al direttore creativo non sia più richiesto un coinvolgimento della propria visione, ma un’interpretazione della storicità del marchio, intesa soltanto come canone dei suoi inizi (il famigerato DNA) più che come sviluppo. Così intese, però, le origini diventano radici e costringono all’immobilismo e, infatti, la collezione per l’inverno prossimo di Calvin Klein dipinge più o meno lo scenario ripetuto degli anni Settanta, Ottanta e Novanta.

A questo punto non si capisce il ruolo della creatività, che non può essere quella di 40 anni fa, altrimenti vivremmo in un perenne démodé. Ma questo porta a quella irrilevanza del direttore creativo che, a questo punto, non solo dovrà rimodificare il proprio job title ma la natura stessa del suo mestiere.

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