«A volte mi sembra di non esser cambiata per niente: i desideri si fanno più sofisticati, ma la base animale non è molto mutata. Quel gioco un po’ fanatico, ossessivo e anche sconsiderato è rimasto lo stesso». Così Chiara Lagani, drammaturga, attrice e fondatrice della «bottega d’arte» ravennate Fanny & Alexander insieme al regista Luigi De Angelis, racconta la spinta propulsiva di questo percorso trentennale. Un anniversario, quello della compagnia, che non potrebbe essere più ricco di nuovi progetti: lo spettacolo Addio fantasmi, tratto dal romanzo di Nadia Terranova con Anna Bonaiuto e Valentina Cervi, che debutterà martedì prossimo a Ravenna festival; il confronto con l’opera e Monteverdi in particolare, con Il ritorno di Ulisse in patria andato in scena recentemente a Cremona; L’amica geniale a fumetti, lettura legata alla graphic novel realizzata con Mara Cerri. Abbiamo intervistato Lagani e De Angelis partendo dall’omaggio che gli tributerà la trasmissione Fuori Orario (stanotte e domani notte in onda su Rai3) in cui emergono le tante «ossessioni» del gruppo, temi ricorrenti che come enigmi si riaffacciano alla coscienza con forme sempre nuove.

Chiara Lagani
Nonostante il teatro sia sempre considerato effimero, la vita che racchiude si imprime nella memoria ed è destinata a restare

Portare il teatro in tv implica una riflessione sui diversi linguaggi. Voi avete sempre utilizzato molto il video, inizialmente in stretta collaborazione con Zapruder filmmakersgrup. Come si è evoluto il vostro rapporto con le immagini?

Luigi De Angelis: Siamo sempre stati molto curiosi di tutti i linguaggi, per questo non volevamo che il nostro nome si connotasse fin da subito con la parola «teatro», desideravamo essere un duo generativo di mondi, visioni, possibilità che che possono riguardare qualsiasi forma artistica. Come punto fermo però ci siamo sempre dati quello di non usare il video negli spettacoli come una forma di narrazione con un tempo aggiuntivo rispetto alla rappresentazione. Abbiamo sempre cercato di far diventare il video una parte di quella macchina scenica, rendendola parte della tessitura e del discorso linguistico. Anche gli Zapruder sono sempre stati molto rigorosi rispetto al dispositivo della macchina linguistica e il dialogo con loro ci ha portato a non abusare del video in scena, che rischia di focalizzare l’attenzione su di sé e di non integrarsi. Il montaggio in particolare genera spesso un’impressione di passato, di qualcosa che è già avvenuto. Per questo usiamo spesso il pianosequenza oppure se c’è un montaggio è stroboscopico o ipnotico, come in Rebus per Ada. Quello che ci interessa è convocare lo sguardo dello spettatore nel tempo presente, in modo da affidargli anche un ruolo di testimone attivo.

Chiara Lagani: Abbiamo utilizzato il video tutte le volte che c’era bisogno di creare uno scarto retorico di qualche tipo, non lo abbiamo mai sfruttato per dare vita a un ambiente come pure molti gruppi hanno fatto con ottimi risultati. Per noi è sempre stato un dispositivo del linguaggio.

«Rebus per Ada»

In «Storia di un’amicizia», tratto dall’«Amica geniale» di Ferrante, ne avete fatto un utilizzo diverso, affidandovi a Sara Fgaier e al suo lavoro con gli archivi.

Lagani: Lì lo schermo incarna una dimensione del ricordo e della storia. Nel romanzo la dimensione storica viene trattata come un personaggio, per cui in qualche modo andava rappresentata. Allora ci è venuta in mente Sara Fgaier, avevo visto il suo modo di operare con gli archivi: come una rabdomante, pesca tra decine di ore di filmati, sembra che abbia un potere di attirare i materiali giusti.

Nei lavori che andranno in onda a Fuori Orario emergono i vostri temi, tra cui quello del rebus connesso alla natura del linguaggio che dal ciclo su «Ada» arriva a «Sylvie e Bruno». Nel passaggio da un testo alla parola recitata cosa accade per voi?

Lagani: Il teatro fornisce un corpo alle parole, io quando leggo ho sempre l’impressione che ci siano dei corpi che si dibattono tra la griglia dei significanti e dei significati, sono delle ombre che vanno immaginate, cambiano anche aspetto ma non si incarnano mai. Cosa accade allora al linguaggio nel passaggio da un corpo evanescente a uno reale? Sono rimasta molto colpita da una frase di Nadia Terranova, ha visto una prova di Addio fantasmi e mi ha detto di aver avuto l’impressione che il suo romanzo stesse diventando immortale, perché i libri tendono a morire, le storie si consumano, soprattutto oggi in cui ne vengono prodotte a migliaia. Ida e sua madre non sono più personaggi letterari ma persone con un volto e un corpo. Nonostante il teatro venga sempre considerato effimero, la vita che contiene si imprime nella memoria ed è destinata a restare.

Una scena da «Requiem»

De Angelis: Questo è anche il motivo per cui lavoriamo con l’eterodirezione (le battute vengono suggerite in cuffia agli interpreti in tempo reale, nda). Cerchiamo di porre l’attore o l’attrice nel presente, perché vogliamo che siano portatori di una verità, mentre il rischio è che il «teatrese», la forma del recitare, arrivi prima. Con l’opera è ancora più difficile ma il nostro tentativo è di decostruire queste forme che si sono appiccicate nel tempo alla rappresentazione. Anna Bonaiuto ad esempio non aveva mai lavorato in questo modo, ma l’ha presa come una punteggiatura interiore che le dà la possibilità di non pensare alla memoria e quindi di essere estremamente libera nell’interpretazione. L’incontro con lei è stato fondamentale, il suo modo di essere sulla scena è incredibile rispetto al discorso sulla verità e la naturalezza. Si tratta di «essere liberi nella prigione», è una frase di Ottavio Dantone – un grande direttore d’orchestra con cui abbiamo lavorato ultimamente – riferita a Monteverdi e al suo linguaggio.

Il rapporto con la letteratura è sempre stato una costante in cui poi si è inserita anche la pratica di traduzione di Chiara. Il testo letterario stimola di più la vostra immaginazione rispetto a uno teatrale?

Lagani: Come lettrice sono una divoratrice di romanzi, abbandonare un libro amato è sempre un lutto e infatti a volte li portiamo in teatro apposta, per continuare a stare con quei personaggi. Non siamo mai stati attratti dai testi drammatici, abbiamo messo in scena solo Romeo e Giulietta. Non so spiegare esattamente perché, ma si potrebbe fare una riflessione sul fatto che la generazione teatrale a cui apparteniamo ha sempre frequentato più il romanzo e il cinema, al contrario di quelle che ci hanno preceduto: penso a Leo De Berardinis, Carmelo Bene, che hanno veramente riscritto le forme drammatiche.

In trent’anni quanto siete cambiati?

De Angelis: Siamo stati in grado di aprirci ad altri incontri e questo ci permette di crescere ed essere curiosi. Quando si è più giovani si ha l’ansia di voler raggiungere qualcosa, sento che ora non l’abbiamo più e nonostante le molte difficoltà che ha una compagnia indipendente come noi in Italia oggi, abbiamo una tranquillità che ci rende più liberi. Non ci interessa seguire il mercato dei «temi» che va di moda, anche se questo implica l’esclusione da certi ambiti. Non riusciamo proprio a essere sulla cresta dell’onda, non sappiamo surfare al contrario di quello che dicevano i Magazzini Criminali in Crollo nervoso.