L’artista sardo Salvatore Fancello

«Fancello ignora Klee quanto Rousseau, i Cinesi quanto la Bibbia di Borso; e le analogie che i suoi lavori talvolta palesano non autorizzano a riferimenti: egli sta con sé stesso». Potremmo partire da queste considerazioni di Giulia Veronesi per occuparci della figura, ancora poco conosciuta, di Salvatore Fancello. Nato a Dorgali nel 1916, l’artista sardo perì nel 1941, non ancora venticinquenne, a Bregu Rapit, sul fronte greco-albanese. Fancello fece il suo apprendistato nel laboratorio artigiano di Ciriaco Piras nel paese natale, prima di trasferirsi, ormai orfano di entrambi i genitori, nel 1930 all’ISIA di Monza, in seguito al conferimento di una borsa di studio. Qui ebbe occasione di frequentare i suoi conterranei Giovanni Pintori e Costantino Nivola, affermandosi come uno degli allievi più brillanti dell’istituto dove si alternarono docenti del calibro di Marino Marini, Pio Semeghini, Karl Walter Posern, Giuseppe Pagano, Edoardo Persico, Raffaele De Grada.
Queste e altre informazioni sono ora disponibili in Gli anni di Fancello Una meteora italiana nell’arte italiana tra le due guerre (pp. 212, € 22,00) che Maurizio Cecchetti licenzia per Medusa. Si tratta di un «quaderno con materiali di studio», come viene definito dallo stesso autore, che intende fare il punto sulla figura di un irregolare che attende da tempo una giusta collocazione critica, nonostante la sua opera abbia avuto estimatori e collezionisti d’eccezione: da Sinisgalli a Carrieri, da Pagano ad Argan. Cresciuto nell’ambiente del razionalismo architettonico che faceva capo a Persico e Pagano, il giovane sarà sempre sostenuto da quest’ultimo che gli affiderà il compito di realizzare il pannello monumentale per la sala mensa della Bocconi, dove una figura femminile in smalto bianco si staglia su fondo azzurro, attorniata da un mosaico composto di piastrelle in ceramica riproducenti attività ludiche e sportive.
Il volume di Cecchetti presenta, oltre a un articolato saggio iniziale, una serie di testimonianze, come quella dello stesso Pagano, che mette in evidenza il «pudore contadinesco» del giovane artista. Fancello coltivò soprattutto la scultura in ceramica e il disegno, approfondendo i suoi studi, oltre che all’ISIA, nei laboratori di Virgilio Ferraresso a Padova e di Tullio Mazzotti ad Albisola. Durante i due differenti apprendistati Fancello avrà modo di sperimentare nuove tecniche di composizione e cottura della ceramica, come specificato da Mario Labò; nella bottega ligure si confronterà con i manufatti di vari artisti, tra cui Lucio Fontana. In entrambi gli ambiti espressivi ragguardevoli risultati furono raggiunti con gli inimitabili bestiari che rimandano a un mondo infantile e favoloso che finisce per contrassegnare la vicenda artistica di Fancello. Si alterna così, in un Eden miracolosamente ritrovato, un corteo di animali domestici e selvatici caratterizzati da pose e colorazioni desuete, prive di qualsiasi verosimiglianza naturalistica. Il lirismo composto e febbrile che ne consegue «sfiora il decorativo senza cadervi», come osserva Giulia Veronesi che accennò a reminiscenze dall’arte rupestre. I leoni, i rinoceronti, gli onnipresenti cinghiali hanno la stessa espressione mansueta di buoi e capre, di giraffe e formichieri, che ostentano improponibili manti azzurri, gialli, viola. Anche quando i leoni azzannano i cinghiali la crudeltà è bandita dall’universo di Fancello, dominato da un senso di rinnovato stupore, di metafisica sospensione. Le mucche per guardare gli aerei zigzaganti tra le nuvole si sdraiano sui prati, simili a beoti, ostentando grottescamente il ventre per aria. Questi improbabili animali «assottigliati e arricciolati dal vento», come precisa Lisa Ponti, o graffiti con l’essenzialità di un’apparizione meridiana, sembrano spuntare dalle domus de janas affioranti da una lingua di terra avara. Molto interessanti al riguardo le corrispondenze con i lubki russi e i riferimenti al fascino esercitato su Arturo Martini fanciullo dalle sculture realizzate dal padre con il pane.
Il capolavoro in tal senso è costituito dal Disegno ininterrotto che l’autore predispose nel 1937 su un lungo rotolo di carta per telescrivente in occasione delle nozze tra Nivola e Ruth Guggenheim, emigrati a New York a causa delle leggi razziali insieme alla sorella di quest’ultima, Renata, di cui vengono proposte in appendice le lettere inedite al fidanzato Fancello. Qui le immagini degli animali si dipanano in tutta la loro gioiosa, giocosa libertà espressiva, creando «quella leggerezza surreale che si ritrova anche in certe opere di Dufy, in particolare nel grande murale della Fée Electricité», come avverte Cecchetti.
Vengono riprodotti alcuni documenti inediti, come quelli relativi all’esposizione tenutasi in una sala di passaggio della XXIV Biennale di Venezia del 1948 che sollevò le vibranti proteste di Gio Ponti dalle colonne di «Domus» per l’ambientazione considerata inopportuna. Ma, nonostante il periodo circoscritto delle sue concezioni plastiche e figurative, il percorso di Fancello si cadenza intorno a momenti emblematici della sua attività. Alla VI Triennale di Milano del 1936 espone un graffito a tema coloniale, oltre ai pannelli, oggi ai Musei Civici di Monza, intitolati Lavori campestri e La partenza del legionario: in quest’ultima opera si recuperano stilemi egizi nelle figure che appaiono di profilo, posizionate a perpendicolo rispetto alla composizione che si sviluppa verticalmente, ottemperando con piglio lirico, quasi onirico, alla propria funzione celebrativa. Contestualmente sono presenti dodici piastrelle riproducenti i segni zodiacali che si contrappongono ai mesi, nonché il Vaso della pavoncella. Andrebbero aggiunti «presepi» e decorazioni effettuate per lo stand della Olivetti alla VII Triennale del 1940.
Sinisgalli rilevò analogie con l’opera di Leoncillo (ma non si dimentichino Broggini, Melotti, lo stesso Fontana ceramista), riscontrando che «certi effetti di meraviglia (…) ricordano lo stupore del ragazzo che conta, dietro una lente, le zampette di una pulce».