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Famiglia, istituzione, business. Windsor a misura di fiction

Famiglia, istituzione, business. Windsor a misura di fictionClaire Foy e Matt Smith in una scena della seconda stagione di «The Crown»

Televisione Claire Foy e Matt Smith protagonisti della seconda stagione di «The Crown», dall’8 dicembre su Netflix. «In un paese con una presenza così preponderante della chiesa d’Inghilterra, il dovere aveva la completa precedenza sull’individuo»

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 26 novembre 2017
Luca CeladaLOS ANGELES

Un paio di Vittoria, quella nella omonima serie ITV interpretata da Jenna Coleman e quella di Judi Dench nel Vittoria e Abdul di Stephen Frears passato a Venezia. Winston Churchill che spunta per ogni dove, dall’Ora Più Buia  di Joe Wright (un Gary Oldman che tutti danno gettonato per gli Oscar) a quello di John Lithgow in The Crown. Quest’ultima serie, collaborazione Sony/Netflix creata da Peter Morgan (Il Re di Scozia, Frost/Nixon, Il Maledetto United), è il successo forse maggiore della nutrita schiera di prodotti  storici a tema di monarchia inglese che esprimono forse la nostalgia per certezze in via di rapida estinzione. The Crown in particolare è la storia di Elisabetta II regina d’Inghilterra, dal matrimonio a Filippo di Edimburgo nel 1947 fino alla crisi di Suez nel 56, ed è stata premiatissima sulle due sponde dell’Atlantico. La serie riprende ora con una seconda stagione (dall’8 dicembre su Netflix) che segue Elisabetta (Claire Foy – recitava nei panni di Anna Bolena in Wolf Hall) alle prese con gli eventi che vanno dal 1956 fino a tutto il 1964. Abbiamo parlato con Claire Foy e Matt Smith (Dr Who), che interpreta Filippo.

Insomma la monarchia è davvero in auge…

(Claire Foy): Bisogna dire che in generale in Inghilterra abbiamo un rapporto singolare con la monarchia perché credo che quello che viene rappresentato in The Crown sia  in fondo molto autentico. La monarchia si evolve e cambia di pari passo col paese. Credo per questo sia un fenomeno affascinante anche aldifuori del Regno Unito, i meccanismi di questa curiosa istituzione che è famiglia ma anche  istituzione e business, una azienda. In fondo credo che il pubblico determini il loro comportamento almeno quanto loro influenzino il nostro – una sorta di transazione. Ed è un  rapporto che forse diamo per scontato.
(Matt Smith): Personalmente non conoscevo molto bene gli Windsor prima di lavorare  a questa serie. Ma qui ho cominciato ad approfondire molto la storia e il retaggio inglese e anche la psicologia della casa reale  che ne è parte integrante. E di pari passo non posso negare di aver acquisito un maggiore affetto nei loro confronti, non so mi sembra come di comprenderli meglio adesso, come persone. Ora quando passo in macchina davanti al palazzo, mi sfugge spesso un sorriso, forse di complicità. È come se sapessi  ciò che avviene lì dentro… so dove si trovano le cucine, gli appartamenti, i bagni della servitù…. Non so se qualcuno abbia  mai spiegato le ragioni sul perché suscitino più interesse i reali inglesi piuttosto che i danesi o gli svedesi, è un dibattito che ricorre ma in fondo va bene così, perché no?

La seconda stagione ruota in particolare attorno al conflitto fra interessi di famiglia e quelli del paese…

(MS): Approfondiamo il personaggio di Filippo, e francamente la sua vita potrebbe essere spunto di una serie tutta sua. Dalla nascita, su un tavolo da cucina in Grecia, poi il viaggio in nave in Italia, la sorella morta in una disgrazia aerea…C’è tutto questo nella serie, tragedia, dopo tragedia, dopo tragedia. Insomma c’è  il contesto per vedere l’uomo che conosciamo oggi, riservato e asciutto, ma non senza senso dell’umorismo, per comprenderlo meglio. Abbiamo girato la scena dei funerali della sorella a Budapest  con ben 600  comparse. ..
(CF): Gli sceneggiatori hanno lavorato intorno alla parola dovere e su cosa questo significhi. Mi sembra interessante gettare uno sguardo indietro nel tempo, soprattutto dopo la guerra in cui si pensava molto di più a cosa andava fatto e cos’era la cosa giusta da fare. Va sottolineato come, in un paese  con una presenza così preponderante della chiesa d’Inghilterra, il dovere aveva precedenza sull’individuo. Facendo un paragone con l’oggi l’ordine si è completamente capovolto: viviamo senza dubbio in un mondo individualista in cui il singolo ha precedenza assoluta sulla collettività. Almeno, al momento è così, spero che col tempo possa tornare a valere il concetto che la maniera migliore per aiutare il singolo è di occuparsi  del collettivo. Ovviamente non voglio dire che tutti debbano essere la regina d’Inghilterra e dedicarsi a questo con abnegazione.

Quale è stata la scoperta più affascinante su di loro? 

(MS): Direi che è un po’ tutto il contesto emozionale di quest’uomo con alle spalle la storia personale che accennavo,  alcune esperienze davvero traumatiche affrontate con un quieto coraggio e risolutezza.
(CF): Pensavo proprio l’altra sera come sia interessante l’ idea su cui si basa l’intera sceneggiatura di The Crown, quella del piedistallo su cui poniamo queste persone come se non volessimo sapere ciò che si cela dietro la loro immagine pubblica e istituzionale, perché altrimenti rischierebbero di somigliare troppo alle nostre stesse vite ordinarie  e questo sarebbe tremendamente deprimente. Ma poi capisci che è proprio questo che la gente cerca; vogliono una divinità, qualcuno che sia diverso da loro, che proietti una immagine di perfezione mentre la realtà è che fondamentalmente siamo tutti uguali.

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