Il 14 febbraio dell’anno 1900, un gruppo di ragazze residenti al College di Woodend, nello stato di Vittoria, in Australia, intraprende la scalata di Hanging Rock. Il cammino è assolato e gli orologi segnano il mezzogiorno, non un’ora qualunque, quindi, ma il momento in cui l’astro diurno è al suo culmine. La limonata e i biscotti, le gonne di mussola bianca e le chiacchiere allegre non servono a contrastare l’atmosfera per niente rassicurante del posto. Bastano una manciata di pagine per precipitare nell’allarmante scoperta della sparizione di alcune di loro, oltre che in un finale del tutto inquietante: per chiarire la scomparsa delle giovanissime donne non si troveranno tracce né spiegazioni.
L’intreccio è quello di Picnic a Hanging Rock, il romanzo di Joan Lindsay reso celebre dall’omonimo film uscito nel 1975 per la regia di Peter Weir e riproposto, di recente, in una miniserie televisiva australiana. Il racconto prevedeva, in effetti, un capitolo destinato a districare il mistero di quella gita tutt’altro che innocua, ma l’editore decise di eliminarlo. Quanto all’ora dell’ambientazione, i suoi pericoli sono ben noti dalle pagine che Roger Caillois ha dedicato ai cosiddetti demoni meridiani e alla credenza antica di prestare la massima attenzione all’istante che precede la parabola discendente del sole, un’ora di pericolosa transizione e di apparizioni soprannaturali, segnatamente quella del dio Pan, evocato nel film di Weir dal flauto della colonna sonora. Il passaggio verso l’età adulta non soltanto comporta dei rischi ma coincide con la certezza che qualcosa di troppo importante si sta irrimediabilmente perdendo e che la traiettoria seguita dalla giovinezza e dalla bellezza non è più al suo vertice. Il mistero di Miranda, Marion e delle altre adolescenti di Hanging Rock ha senz’altro a che fare con un ineffabile congedo da questa stagione della vita, oltre che con lo sgomento connesso all’idea di diventare grandi.

Piaceri e dolori dell’amore
È Silvia Romani a farci notare, nel suo ultimo saggio Saffo, la ragazza di Lesbo (Einaudi «Frontiere», pp. 195, euro 18,50), che le educande di quel collegio d’età vittoriana non sono poi così diverse dalle timide ragazze che, molti secoli addietro, si apprestavano a vivere il tempo dell’amore in Grecia, i suoi piaceri e i suoi dolori. Anattoria, Gongila, Attide sono i nomi di alcune delle giovani che stanno al centro di tutta una parte della produzione poetica di Saffo dai toni più intimi: versi da leggere come eco di un’esperienza condivisa con il piccolo gruppo femminile che «la veneranda» – così è chiamata in un frammento di Alceo – guidava verso l’acquisizione dello status di donne adulte, nel segno di Afrodite, delle Muse e delle Cariti.
Nel formulare l’accostamento tra le protagoniste del romanzo e le fanciulle greche, la studiosa si sofferma sulle questioni che tradizionalmente assillano gli interpreti di Saffo, probabilmente destinate a rimanere insolute: la natura difficilmente inquadrabile del legame con cui le compagne si stringevano intorno alla poetessa, nella Lesbo del VII secolo a.C.; il valore inadeguato della parola «tiaso», che sarebbe stata attribuita a posteriori, come contraltare delle eterie aristocratiche di stampo maschile; la difficoltà di individuare un ruolo per la stessa Saffo. Molti ne sono stati smontati e ricomposti. Il più fortunato, nella storia della critica moderna, è quello restituito a fine Ottocento da Wilamowitz, sulla scia di un profilo già tracciato dal filologo Welcker, di una Saffo direttrice di collegio del tutto estranea a pratiche omoerotiche, ma sul versante opposto si rintraccia anche la maestra di seduzione e di piacere equiparabile alla onee-san, la «sorella» maggiore, che guidava le aspiranti geishe al tempo del loro apprendistato. Chi volesse addentrarsi nelle poste intermedie di questa escursione tra i due estremi potrà leggere le rappresentazioni di Saffo che Camillo Neri censisce nella bella introduzione alla silloge più completa e recente dei suoi versi (Saffo, Poesie frammenti e testimonianze, a cura di Camillo Neri e Federico Cinti, Foschi editore, 2017).
Silvia Romani è ben consapevole che il tragitto diretto verso Saffo è fatto soprattutto di sentieri cancellati, e nel restituirne il ritratto punta su un’ampia profondità di campo. La messa a fuoco è sul contesto che fa da sfondo alla poetessa: sui riti connessi a quella parte importante della sua produzione che sono i carmi celebrativi delle nozze, sui miti capaci di fare da cassa di risonanza ai temi dei frammenti, come quello di Adone, sul culto per la dea Afrodite. Non ultimo, è il luogo della sua esistenza a essere esplorato: quell’isola di Lesbo rivolta verso l’Oriente molto più che alla madrepatria greca, luogo di soste e ripartenze, dall’era lontana in cui i guerrieri achei, in viaggio per Troia, avevano trovato riparo nel suo porto sicuro, fino ai giorni odierni che annoverano Lesbo quale meta di profughi e sede di centri d’accoglienza.
C’è stato un tempo in cui dalle scogliere dell’isola le donne indirizzavano a Era le preghiere per il ritorno dei loro uomini impegnati nelle attività di mare, non diversamente da come fa Saffo intonando il canto per il fratello Carasso, in uno dei frammenti dati alle stampe in anni recenti. Né la sua è l’unica voce poetica dell’isola, che poteva vantare i natali di Lesche, cantore delle vicende di Troia, di Arione, inventore del ditirambo e di Terpandro, musicoterapista ante litteram e innovatore delle tecniche musicali. Senza dire che sulle spiagge di Lesbo era approdata la testa mozzata del mitico Orfeo, una testa ancora capace di cantare non più l’amore per Euridice ma il destino degli uomini, come un vero e proprio oracolo.
«L’anima di Lesbo è il canto», puntualizza la studiosa – la cui consuetudine con questo e altri luoghi della Grecia è ben nota dalle pagine delle guide mitologiche scritte con Giulio Guidorizzi: l’ultima, La Sicilia degli dèi, è appena uscita per Raffaello Cortina (pp. 296, euro 20,00) –, e nel dirlo mette in risonanza tra loro i versi di Saffo e quelli del suo contemporaneo Alceo di Mitilene, capaci di cantare gli stessi temi della guerra e dell’amore ma in termini di reciproca inversione. È uno sguardo femminile quello che convoca Elena non come rovina di eserciti ma come viaggiatrice innamorata, nel frammento saffico che definisce l’amore kálliston, «la cosa più bella», ma la prospettiva si rovescia nelle parole di Alceo, intrise di morte e del sangue degli uomini versato «solo per lei».

Un paesaggio dell’anima
Il saggio della Romani ricompone un paesaggio dell’anima, in cui la nebbia, le tempeste, gli inverni innevati e le estati infuocate intervengono come termine di paragone di una variabilità atmosferica tutta interiore. In questo quadro andrà collocato il frammento più imitato, oltre che più tradotto dai poeti antichi e moderni, da Catullo a Tennyson, che fa di Saffo la «paziente zero» di un mal d’amore classificato nel XVII secolo in termini di vera e propria patologia, la chlorosis o green sickness: «…Basta un solo sguardo / e perdo le parole, / la lingua si spezza, un rivolo / di fuoco scorre veloce sotto la pelle. / Gli occhi si riempiono di nebbia, le orecchie / rombano e un sudore / gelido mi goccia addosso. Un tremito / mi scuote tutta, son più verde dell’erba…» (fr. 31 Voigt). Questa combinazione tra corpo femminile ed elemento vegetale non è isolata e va considerata alla luce di tutto un alfabeto botanico via via ricostruito lungo le pagine del libro: dall’erotica mela che «dolce arrossisce sulla punta di un ramo» fino alle funeree «sponde d’Acheronte / roride e colme di loto».
Ad amplificare l’impatto fortemente evocativo di questo ritratto di Saffo, intervengono i molti riferimenti alla storia della sua ricezione. Tra tutti, varrà la pena di ricordare almeno Baudelaire, che inaugurò la raccolta Les fleurs du mal (era il 1857) proprio nel segno di Saffo, con un gruppo di sei poesie subito censurate perché considerate lesive dell’ordine morale. Nei versi di Lesbo, la prima, il poeta si immagina in bilico sulla rupe di Leucade, come una sentinella in attesa che il mare restituisca il corpo senza vita di Saffo. Da quello scoglio, come si sa, Saffo si era tuffata per guarire dall’amore non corrisposto di Faone: ma non per cercare la morte. Forse, come suggerito dalla versione ovidiana della leggenda, voleva solo che l’Amore le facesse spuntare delle ali da uccello.