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Fallujah, pronti all’assalto finale

Fallujah, pronti all’assalto finaleCheck-point alle porte di Fallujah – Reuters

Iraq L’esercito circonda la città, dove sventolano le bandiere nere di al Qaeda

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 7 gennaio 2014

Gli occhi del mondo tornano a posarsi sull’Iraq, dimenticato dopo un’occupazione militare lunga otto anni e abbandonato a un destino di settarismi interni e mancata pacificazione. Dopo una settimana di scontri – oltre 200 vittime – tra esercito nazionale e Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (formazione vicina ad al Qaeda), i jihadisti controllano gran parte di Fallujah e allargano la loro presenza in tutta la regione sunnita di Anbar.

Sabato le bandiere nere di al Qaeda sventolavano su Fallujah e ancora ieri i miliziani jihadisti occupavano stazioni di polizia ed edifici pubblici. Preso d’assalto il checkpoint militare della vicina Abu Ghraib, mentre i soldati di Baghdad faticavano a entrare nelle città dell’Anbar per l’ingente presenza qaedista. Sul campo, il premier Maliki – dopo aver ordinato bombardamenti contro la zona settentrionale di Fallujah e di Ramadi, altro fronte caldo dello scontro – ieri ha fatto appello ai residenti e alle tribù, ultimo baluardo della città. Il consigliere del primo ministro, Saad Al-Mutalabi, ha detto alla Bbc che alcuni ribelli sono riusciti a far entrare armi dal confine siriano, sempre più poroso, armamenti proveniendall’Arabia Saudita.

L’esercito iracheno ha per ora circondato Fallujah per l’assalto finale. Un’eventualità che terrorizza la popolazione, in fuga da giorni dall’intera regione di Anbar, come accaduto nel 2004 quando a combattere per il controllo definitivo della città sunnita erano i soldati Usa: «Sembra di essere tornati indietro al 2004 – ha commentato alla stampa un giornalista locale – Prima dell’attacco finale americano c’era solo un cimitero a Fallujah. Dopo, ne abbiamo costruiti quattro. Oggi la gente teme che ne avremo otto».

E se la città sunnita sembra ormai sotto il controllo qaedista, diversa è la situazione a Ramadi, dove la presenza dell’IsIL appare indebolita. Secondo il generale Rasheed Fleih, comandante militare di Anbar, basteranno tre giorni per liberare la città dal controllo qaedista, grazie al sostegno delle tribù locali che gestiscono le operazioni di terra, sotto la copertura aerea dell’esercito.

Il governo sciita di Maliki, palesemente nel caos, ha rivolto ripetuti appelli agli Stati uniti perché intervengano contro l’avanzata jihadista. Dopo aver promesso missili terra-aria e droni, ieri il segretario di Stato Kerry, in visita nella regione, si è detto pronto a sostenere Baghdad in ogni modo. O quasi: Washington non intende inviare truppe, tantomeno a Fallujah, teatro dei peggiori scontri tra soldati statunitensi e resistenza locale negli anni dell’invasione e di un vero e proprio massacro guidato dai contractor Blackwater, che lasciarono dietro di sé morti e un elevatissimo tasso di tumori nella popolazione sopravvissuta.

«È una battaglia che l’Iraq deve combattere, che appartiene agli iracheni», ha detto Kerry senza specificare quale tipo di aiuto che intende garantire a Baghdad. Il segretario di Stato non ha nascosto la preoccupazione per l’avanzata repentina dei jihadisti sia in Siria che in Iraq. Preoccupazione condivisa dalle opposizioni moderate al presidente siriano Assad, in questi giorni impegnate in duri scontri con IsIL e Fronte al-Nusra. Una faida interna tra Coalizione nazionale e l’Esercito libero siriano da una parte e qaedisti dall’altra, accusati dalle opposizioni di condurre azioni che alimentano lo scontento internazionale e interno.

Negli ultimi mesi l’autorità politica e la presenza militare della Coalizione si è drasticamente ridotta, in parte per i tentennamenti su Ginevra 2, prevista per il prossimo 22 gennaio. La federazione deve tornare centrale nel conflitto contro Damasco. Per farlo, combatte i ribelli jihadisti. Decine i morti da venerdì nelle province di Aleppo e Idlib: a Manbij, l’IsIL ha attaccato i rivali con autobombe, strumento finora riservato all’esercito di Damasco. Sempre più numerose le comunità a Nord della Siria, al confine turco, controllate da gruppi jihadisti e teatri di violenze contro attivisti, residenti e giornalisti.

Dietro i 5mila combattenti dell’IsIL (per lo più non siriani) sta il potere forte delle petromonarchie del Golfo, alleate Usa di lungo corso, che riforniscono di armi e ingenti finanziamenti le frange più estremiste dell’opposizione siriana, e oggi anche dei gruppi in Iraq. L’obiettivo di Arabia Saudita e Qatar è chiaro: creare un potere unico che si rifaccia alla Sharia in tutto il Medio Oriente. Gli ostacoli maggiori sono da sempre Damasco e Tehran, che negli ultimi mesi – grazie alla firma di accordi storici – hanno saputo riacquistare nuova credibilità internazionale.

 

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