Fagiolo Dell’Arco, l’arganiano nell’arte novissima
Critici militanti Un prezioso volume di Fabio Belloni (Officina Libraria) sull’impegno nel contemporaneo di Maurizio Fagiolo. Sostenitore di Schifano e Pascali, dopo lo choc del Sessantotto si fece archeologo dell’avanguardia (Man Ray)
Critici militanti Un prezioso volume di Fabio Belloni (Officina Libraria) sull’impegno nel contemporaneo di Maurizio Fagiolo. Sostenitore di Schifano e Pascali, dopo lo choc del Sessantotto si fece archeologo dell’avanguardia (Man Ray)
Non è semplice orientarsi nella sterminata bibliografia dei tanti critici che, negli anni centrali della Prima Repubblica, registrarono a caldo la vitalità, e le contraddizioni, dell’arte italiana contemporanea attraverso scritti editi su quotidiani, bollettini di gallerie e cataloghi di mostre spesso rari o di difficile consultazione. Si rivela dunque prezioso il lavoro condotto da Fabio Belloni che con scrupolo filologico ha recuperato, ordinato e analizzato i contributi di Maurizio Fagiolo dell’Arco (1939-2002) maggiormente calati nell’attualità dei dibatti degli anni sessanta e settanta. I risultati di questa operazione sono confluiti in un utile libro-antologia (Maurizio Fagiolo dell’Arco critico militante 1964-1980, Officina Libraria, pp. 464, euro 38,00) che dovrebbe essere preso a modello da chi si accinge a studiare il profilo dei numerosi, e altrettanto prolifici, cronisti d’arte attivi negli stessi anni su periodici di diversa tipologia, diffusione e collocazione politica.
Rendere di agevole lettura, ripubblicandoli, articoli poco noti ma per molti aspetti illuminati è già di per sé positivo perché amplia il panorama delle fonti utilizzabili nella Storia dell’arte degli ultimi decenni. Tornare a parlare di una figura controversa e dalle molteplici aree d’interesse come Maurizio Fagiolo – tra i suoi campi d’indagine spaziava da Giulio Paolini a de Chirico, da Capogrossi al Futurismo, dalla Scuola romana degli anni trenta a Schifano – si rivela poi proficuo perché permette di impostare una più ampia riflessione sulla crisi identitaria vissuta da certi intellettuali – e nello specifico da certi critici d’arte – dopo il 1968.
Come sottolineato nella puntuale introduzione al volume, Fagiolo sin dagli anni giovanili ebbe uno sguardo sostanziato nella Storia dell’arte: infatti era stato allievo di Argan alla Sapienza di Roma e, dopo la tesi su Domenichino (1963), si occupò a lungo della teatralità barocca. Tuttavia, proprio mentre si predisponeva a interrogare il passato non trascurò il presente e, sia in qualità di critico dell’Avanti! (1964-’68) e del Messaggero (1974-’80), sia in veste di fiancheggiatore di promesse della neo-avanguardia come Pascali e Schifano, scelse di farsi interprete degli indirizzi di poetica sviluppatisi dopo l’Informale. Fu così che nel 1966, per i tipi di Bulzoni, diede alle stampe Rapporto 60. Le arti oggi in Italia, libro ancora attuale – perfettamente utilizzabile come vademecum per comprendere allo stato sorgivo fenomeni espressivi complessi ed eterogenei – in cui, con opportune rielaborazioni, andarono a confluire molti pezzi già apparsi su testate giornalistiche o su volatili cataloghi d’esposizione.
Non era inusuale che uno storico dell’arte con alle spalle una solida formazione accademica si inoltrasse nell’hic et nunc del proprio tempo. Nello Ponente e Marisa Volpi – discepoli rispettivamente di Lionello Venturi e Roberto Longhi – già prima del 1964 avevano proposto affondi sugli artisti viventi proprio dalle colonne dell’Avanti!. Ciò che tuttavia differenziava Fagiolo dai colleghi era la prospettiva storica con cui riuscì ad approcciarsi all’inafferrabile orizzonte contemporaneo. Forse per una mai venuta meno fedeltà alla lezione razionalista del maestro Argan, e probabilmente anche grazie all’innata predisposizione a captare le frequenze più vive della creatività, offrì un inquadramento originale di tendenze non ancora – o non del tutto – istituzionalizzate.
Nel saggio introduttivo all’antologia degli scritti Fabio Belloni fa notare come l’iniziale adesione di Fagiolo al clima modernista degli anni sessanta andasse di pari passo con l’utilizzo di precise scelte lessicali. La fortunata espressione «Figurazione novissima» – impiegata per qualificare il substrato iconico sedimentatosi nelle opere degli animatori della «Scuola di piazza del Popolo» – era di certo correlata alle sperimentazioni linguistiche dei poeti Novissimi (Balestrini, Giuliani, Sanguineti…). Con un fraseggio aulico ma mai ermetico Fagiolo era solito utilizzare metafore incisive tratte dalla letteratura e dalla drammaturgia che, spesso, facevano da contraltare a un gusto spiccato e tutto romano per l’invettiva. Spietati, e riconducibili a un’ingombrante ansia di protagonismo, furono gli strali lanciati non solo contro i rappresentanti del Realismo esistenziale – Fieschi, Vacchi, Romagnoni – ma anche contro chi si era prestato a sostenerli: Crispolti, Del Guercio e Micacchi furono bollati come «critici della Santa Alleanza» (1965); Barilli venne definito «reazionario» e «provinciale» (1965). Tenace fu poi l’avversione per Guttuso e il suo successo (paradigmatica, e risalente al 1976, la stroncatura dell’ambizioso dipinto Caffè Greco).
Per un certo periodo Fagiolo seppe far dialogare l’impegno di critico «militante» con il connaturato trasporto per l’arte del passato. Era ad esempio consapevole che il revival di stilemi futuristi tornato in auge negli anni del boom economico – continuamente ribadito anche sulla scia dei coevi referti di Alberto Boatto, Maurizio Calvesi e Cesare Vivaldi – avesse spinto autori come Dorazio e Schifano a rivisitare costrutti formali desunti dal movimento marinettiano. In accordo agli orientamenti dei molti pittori e scultori supportati criticamente – i quali, tra le altre cose, dovettero instillargli il gusto per l’ideazione di prodotti editoriali dalla grafica ricercata – divenne uno dei più convinti artefici della riabilitazione, anche mercantile, di Giacomo Balla (indicativo il ciclo di retrospettive curate presso la galleria l’Obelisco tra il 1968 e il 1970). E, sulla scorta delle tante informazioni inedite riportate da Fabio Belloni, incuriosisce venire al corrente di come attorno al 1970 Fagiolo dell’Arco avesse pensato di pubblicare con Einaudi, e con l’intermediazione di Paolo Fossati, il libro Teoria del futurismo 1909-1919. Il progetto, presto andato alla deriva, intendeva gettare nuova luce su esperienze ancora considerate «collaterali» rispetto alle arti figurative futuriste – il cabaret, l’ambientazione, l’atteggiamento protoperformativo sfoggiato da Boccioni e compagni – focalizzandosi su estremi cronologici ben delimitati. «Il vero Futurismo – scrisse nel 1968 avanzando una tesi che sarebbe entrata in collisione con i dettami di Crispolti – copre appena dieci anni». Del resto, sempre sullo scorcio del decennio, Fagiolo aveva via via perso entusiasmo per la stesura di un saggio – intitolato Between Art and Life e mai andato oltre la fase ideativa – sul binomio arte-vita declinato lungo la traiettoria che dalla prima avanguardia portava fino alle ricerche pop.
Qualcosa, era innegabile, si stava incrinando. Il ’68, l’incalzare inesorabile delle ideologie e la radicalizzazione degli sconfinamenti extra-artistici dovettero provocare un senso di disagio in Fagiolo il quale, a ben vedere, rimase fedele a un’idea retinica dell’esperienza estetica (cioè vincolata a un manufatto o a un dispositivo ottico). Non si trattava di un’involuzione reazionaria ma al contrario – e Belloni lo spiega bene – dell’estrema, e profondamente coerente con i propri assunti, rivendicazione del primato di una linea d’espressione irriducibile alle effimere, e nichiliste, voghe post ’68. Quelle «novità» così tanto propagandate, a detta di Fagiolo, non erano altro che pallide imitazioni di gesta incendiarie già collaudate nel primo Novecento. «Ho abbandonato le trincee – dichiarò in una intervista degli anni novanta – per rifugiarmi nella storia». Ecco dunque il critico engagé trasformarsi in «archeologo dell’avanguardia» e, in parallelo, ecco l’interesse per i padri del concettualismo come Man Ray, Duchamp, Picabia e persino de Chirico al quale, in tempi pionieristici, dedicò scritti che consentirono di rivalutare la tanto esecrata fase post-metafisica.
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