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Fabro, la difficile arte di essere lucidi

Fabro, la difficile arte di essere lucidiI «Piedi» di Luciano Fabro in una delle sale della mostra madrilena

Al Palacio Vélazquez, opere 1962-2006 di Luciano Fabro Spazi luminosi per un artista che, opponendosi all’ortodossia concettuale, ha fatto coincidere pensiero e forma: con «gravitas», ironia, dialettica

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 22 marzo 2015

Un incontro felice quello tra le opere di Luciano Fabro e il Palacio Velázquez di Madrid. Eretto dall’architetto Ricardo Velázquez Bosco nel cuore del Parque del Retiro in occasione dell’esposizione nazionale mineraria del 1883 e ora affidato in gestione al Museo Reina Sofia, il Palacio ospita, sino al 14 aprile, la mostra di Luciano Fabro curata da João Fernandes (con l’apporto della figlia dell’artista, Silvia Fabro) e premiata da seimila visitatori a settimana.

La luce che inonda lo spazio espositivo si addice alle opere di un artista nemico degli inganni e delle idiozie, che ha dato forme di seducente armonia a pensieri lucidi e ispirati. È il lume celebrato dalla cultura illuminista – della quale l’edificio è una tarda testimonianza – a irrorare il lavoro di Fabro, il quale non ha mai smesso di guardare alle vicende del mondo con lo strumento della dialettica, interrogandosi, analizzando, svelando qualche verità non assoluta, mettendo a frutto processi mentali e esperienze, senza ignorare gli affetti e le lusinghe tutte umane di ciò che piace. Coltivando, si direbbe, una fede incrollabile nel discernimento, ma con opere, per dirla alla Musil, che trapassano da parte a parte il senso del mondo.

Nato nel 1936 da genitori originari del Friuli, luogo della sua infanzia e adolescenza, si trasferì nel 1959 a Milano, la città di Lucio Fontana e di Piero Manzoni, che era stata officina del Futurismo. Nella milanese galleria Vismara tiene la sua prima mostra personale nel 1965, anno in cui conosce la più sensibile e partecipe tra i giovani critici italiani, Carla Lonzi, per approdare, in breve tempo, alla galleria Notizie di Torino e entrare in contatto con Germano Celant che lo annovera tra i protagonisti dell’Arte Povera assicurandogli l’abbrivio per fertili confronti internazionali.

La mostra madrilena rende doveroso omaggio a un artista tra i più illustri del secondo Novecento, prematuramente scomparso nel 2007, con una rassegna di opere realizzate nell’arco temporale 1962-2006. Pochi ma essenziali elementi architettonici, in parte preesistenti in parte costruiti per l’occasione, articolano lo spazio espositivo secondo una logica ortogonale, creando ambienti differenti, senza, però, intaccare l’impressione che si ha entrando nel Palacio di un continuum di opere tra loro dialoganti. Solo alcune di queste sono accostate secondo evidenti affinità: i lavori d’esordio o i «Piedi» o le «Italie». Non esiste un vero e proprio percorso, il visitatore non riceve alcuna indicazione ed è libero di passare da un’opera all’altra scegliendo tra diverse possibilità. È un visitatore investito di fiducia: sottratto alla ovvietà della cronologia e invitato a misurarsi con le opere. La scelta, credo, sarebbe piaciuta all’autore ed è in sintonia con la filosofia del Reina Sofia che ha preferito, in questo caso, non consegnare in maniera definitiva il lavoro alla Storia, né tentare di spiegarlo. Una scelta coraggiosa. Tanto più coraggiosa nel caso di Luciano Fabro, la cui opera si articola attraverso una complessità di scelte che non è facile ricostruire, nonostante egli abbia scritto molto in merito alle proprie opere, temendo, forse, come accadeva ad altri, di essere il creatore di un’arte indecifrabile se giudicata con i parametri tradizionali. Un lavoro esigente e di difficile comprensione anche a dispetto della vocazione di Fabro all’insegnamento da lui teorizzato e brillantemente messo in pratica per lunghi anni all’Accademia di Brera. Affascinante lettura è il tascabile Einaudi Arte torna arte. Lezioni e conferenze 1981-1997, nelle cui pagine Fabro dirompe magistralmente dallo specifico dell’arte all’etica.

Presenza eccezionale a Madrid è Lo spirato, divenuto un’icona dell’arte contemporanea sebbene sia stato raramente esposto dopo la sua prima apparizione a Roma nel 1973. Sappiamo che l’autore iniziò a lavorarvi nel 1968. Una serie di fotografie lo ritraggono steso a terra, il corpo adagiato su un giaciglio, semicoperto da un lenzuolo e con la testa poggiata sul cuscino. Da quella posa venne tratto il calco in gesso e dal gesso il pregiato e costoso marmo. Per finanziarlo, Fabro emise cento cedole e ne vendette cinquanta facendo de Lo spirato una proprietà collettiva della quale era il maggiore azionista. L’opera, sottratta in questo modo alla speculazione del mercato, è anche espressione di un’altra significativa sottrazione: dalla realtà alla sua trasposizione in arte, il corpo si è volatizzato, ne rimane solo la forma trattenuta dal panneggio del lenzuolo e dall’impronta lasciata sul cuscino. Anno cruciale, per Fabro, il 1968, quando passò dalla tautologia all’ontologico (l’espressione è sua). Rinunciò a lavorare sul dato di fatto abbandonando la prassi che le avanguardie dell’epoca impiegavano come antidoto all’idealismo e che lui stesso aveva adottato per «scansare ridicole interpretazioni e fare cose di facile lettura». Si dedicò, di contro, alla cosa in sé, il cui valore non doveva essere particolare (legato al singolo oggetto), ma esemplare (valido per tutti). Con le sue opere d’esordio aveva ideato «elaborati» per attivare il pensiero, come Mezzo specchiato mezzo trasparente del 1965, ora esposto a Madrid dove, con la sua discordante visione del medesimo ambiente, continua a imporre all’osservatore di mettere a fuoco la percezione di se stesso nello spazio, percezione altrimenti data per scontata (un apporto nuovo nella direzione delle compenetrazioni futuriste e dei tagli di Fontana). Poi, negli anni della cosiddetta maturità, Fabro si pose il problema di dare vita a una forma, in altre parole si mise a fare sculture. Passaggio delicato e poco indagato della recente storia dell’arte, che vide alcuni eccezionali artisti innestare nella scultura le invenzioni di carattere concettuale e sul quale la mostra spagnola offre con generosità materia di riflessione. Seducente è l’insieme dei «Piedi» (datati dal 1968 al 2000). Fabro scelse, evidentemente, di iniziare il suo discorso sulla forma dall’elemento ultimo su cui grava il peso che conferisce alla materia la stabilità e la dignità di corpo (in senso figurato la gravitas latina è «valore», «importanza», «autorità»). Piedi di Marmo Rosa del Portogallo, di un marmo dal colore ambrato detto Colaticcio, di Marmo Verde di Prato, di bronzo dorato, di bronzo patinato, di vetro… con calzoni di seta plissettata, drappeggiata… di colore verde smeraldo, cipria, rosso cinabro, blu oltremare… Fanno da controcanto ai «Piedi» le «Italie». Notissima serie di opere (1968-2006) nelle quali la forma dell’Italia è declinata in materiali e tecniche diverse. Ma l’interesse di Fabro non era per i materiali. Piuttosto riponeva il suo impegno a escogitare forme che non venissero interpretate secondo i canoni generalmente applicati ai materiali che impiegava. Contemplava l’invenzione. Fu lo stesso artista a dichiararlo, riesumando un termine che era stato per qualche tempo messo al bando dall’ortodossia concettuale.

A Madrid si possono vedere alcune tra le sue più belle invenzioni: Sisifo, dove l’incisione di un rocco di Marmo Portorino imprime nella farina la silhouette dell’autore novello Sisifo; gli ambienti Habitat e Penelope; Nord, Sud, Est, Ovest giocano a Shangai, deflagrante messa in discussione degli abituali parametri di orientamento; Ovaie, struggente dimostrazione della sensibilità femminile e persino materna annidata nell’opera di Fabro; Attaccapanni, tele tinte nelle gradazioni più seducenti del cielo sospese a racemi riesumati dall’epoca arcaica delle metamorfosi; Prometeo, per la cui realizzazione Fabro, atterrito dal disastro di Cernobyl, chiamò a raccolta strumenti scientifici e il sostegno classico della colonna… Un insieme affascinante e coerente, che restituisce la sensibilità grave ma anche ironica dell’artista, al quale piaceva l’inciampo, la combinazione degli opposti e il paradosso della loro convivenza. Come accade ne Lo spirato, che fissa l’enigmatico trasmigrare di corpo e anima, individuo e cosa, in una forma che è tale sebbene si articoli simultaneamente attraverso la presenza e l’assenza della materia, facendo dialogare i fondamenti della scultura, gli eterni opposti di pieno e di vuoto.

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