Fabrizio Ferraro, rimettere in gioco il mondo nello spazio del cinema
Intervista Una conversazione con il regista in occasione della retrospettiva che gli ha dedicato la Viennale
Intervista Una conversazione con il regista in occasione della retrospettiva che gli ha dedicato la Viennale
La Viennale, il festival nella capitale austriaca (fino al 31 ottobre), tra gli appuntamenti di riferimento per il cinema indipendente nel mondo – lo dirige dal 2018 Eva Sangiorgi – presenta quest’anno una personale dedicata a Fabrizio Ferraro: sette film – SebastianO; Quando dal cielo; Colossale sentimento; Les Unwanted De Europa; Piano sul pianeta (Malgrado tutto, coraggio Francesco!); Checkpoint Berlin; La veduta luminosa – di uno degli autori italiani più «segreti», la cui opera attraversa gli immaginari, la storia, il fare cinema stesso per interrogare la contemporaneità. Quello che segue è un estratto dalla conversazione realizzata per il festival.
Guardando ai sette titoli che sono presenti nel programma della Viennale emerge l’interazione del tuo cinema con altre arti. La pittura in «SebastianO», la musica in «Quando dal cielo», la scultura in «Colossale sentimento», la filosofia di Benjamin in «Les Unwanted De Europa» e la poesia in «La veduta luminosa»…
Bisogna partire dal fatto che l’arte in generale, tutto quello che gli esseri umani provano a «tracciare», è innanzitutto un modo per combattere la finitezza della vita. Questa condizione disperante, uguale per tutti in ogni periodo storico, è ciò che ci spinge a creare qualcosa che ci sopravviva e spesso queste stesse cose sono fonte di vita per l’uomo morente. Lo stesso vale anche per me. Relazionarmi con le tracce lasciate da altri esseri umani è una cosa che mi tiene in vita e mi permette di guardare a cose molto concrete: da come respiriamo o camminiamo a come ci relazioniamo con i luoghi comuni, le parole d’ordine della nostra epoca e così via. Il cinema ha la grande capacità di permettere di riformulare e di ricordare la conoscenza. «Conoscere è ricordare» dice Platone. Al di là delle esigenze che si hanno di circoscrivere qualcosa di finito o oggettuale, il cinema ha una processualità che è proprio funzionale a rimettere in relazione le cose, porta con sé un respiro e un’apertura che rimettono in gioco gli elementi, anche le espressioni artistiche. Il quadro del Mantegna in SebastianO mostra il tentativo di far sparire l’opera, perché questa, una volta finita, diventa anche un punto di separazione tra noi e il mondo, quasi rassicurante. Nel film c’è la sparizione del quadro del Mantegna, con tutto quello che dice e che si porta dentro, e Sebastiano, fuori da quella visione, viene rimesso in relazione con tutto il resto che c’è nel film.
In Colossale sentimento c’è un’opera rifiutata nel suo tempo che viene riportata nel luogo per cui era stata concepita. Questo non è solo uno spostamento, ma un «rifare» l’opera, rimetterla in gioco in un altro tempo e in un altro spazio, e questo lo fanno sia gli operai che il film stesso. Non è una cosa intellettuale, di concetto, ma molto concreta. Si può dire che Colossale sentimento abbia rimappato il barocco a Roma sia facendo riemergere l’importanza di Francesco Mochi come scultore, che seguendo la ricollocazione della sua opera nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Per parlare dell’oggi non c’è bisogno di fare un’analisi sociologica o una fotografia realistica del circostante, bisogna trovare i legami e le condizioni che mettano in gioco la realtà del film e che si possono trovare anche in altre opere più distanti nel tempo, altrimenti si rischia di fare un cinema cieco.
Nei tuoi film la relazione col presente, lo scontro con il mondo, avviene attraverso i mezzi del cinema: l’inquadratura, il suono, il ritmo delle immagini. Non fa alcuna differenza che si tratti della Berlino del terzo millennio o di Benjamin al confine tra Francia e Spagna.
Tutto viene riformulato: non c’è alcuna separatezza tra interno e esterno, tra campo e fuori campo; non c’è un set circoscritto, tutto si avvicenda. Quindi saltano confini spaziali e temporali, collassano e si condensano in quel tragitto che un gruppo di persone percorre insieme facendo il film. Non c’è un tempo storico e uno presente, così come non c’è un solo spazio, ma ci sono tempi e spazi propri di quell’opera, che non sono lineari ma convivono nello stesso istante. Un esempio possono essere le Mura Aureliane in SebastianO, dove una pietra del 200 d.c. sta insieme a una scritta degli anni ’60 e poi a una di anni dopo. Il cinema ha questa capacità di condensare tutto. Io negli anni sono arrivato alla conclusione che tutto è in campo, un dentro che allo stesso tempo è sempre un fuori, perché questo abbaglio di vita che è il cinema crea un doppio movimento continuo di entrata e uscita.
È questo tempo altro e condensato che ti permette di mettere Benjamin e Hölderlin nello stesso ciclo dedicato agli «indesiderati». Chi è per te l’indesiderato?
Ogni epoca ha una sua verità e quindi un suo conformismo. Questo vale anche per l’anticonformismo degli anni ’70, quando, al contrario di oggi, veniva messo al bando chiunque non si adeguasse al ribellismo. In questo movimento di espulsione c’è un meccanismo che rovescia la verità del proprio periodo, perché anche la verità cambia a seconda dei momenti e ogni epoca storica si sente migliore del periodo precedente. Chi viene espulso nel proprio periodo storico è qualcuno che sta ricercando da un’altra parte. Spesso ci accorgiamo in seguito che quella ricerca aveva una sua verità e una sua forza, magari anche maggiore della cultura dominante. Questo meccanismo di esclusione è uguale in ogni periodo storico, ogni epoca ha i suoi unwanted, al di là del cambio di strumenti e innovazioni tecnologiche. Chi si arrischia in territori poco battuti senza fare calcoli, mettendo in gioco i conflitti della vita, le sue difficoltà che poi sono sempre le stesse, viene messo alla gogna. Perché si preferisce evitare ciò che non conferma, non consola, non dà sicurezze. Io cerco di fare dei film che provino a trovare dei frammenti di vita, anche se questo spesso comporta scelte che so già non saranno accettate, ma è un rischio necessario affinché l’opera abbia una sua propria forma di vita che resista alle mode e ai valori di questo tempo. Non importa se questo comprende un restare ai margini.
Il «passeur» è una figura centrale in «Checkpoint Berlin» che in qualche modo porta questo doppio movimento di cui parli…
Assolutamente, io credo che il passeur rappresenti concretamente questo mettere in collegamento le parti, è colui che mette in contatto più spazi e quindi le diverse verità del tempo. È una figura che unisce ciò che a noi appare separato, in un certo senso ha qualcosa di religioso, ci rimanda al sacro. Questo termine, che è stato bandito per molti anni ma ora sembra tornare di moda, riguarda invece una spaccatura, una frattura, come lo è una caverna o il cinema stesso. In questa spaccatura c’è tutto. Il passeur in Checkpoint Berlin si muove lungo quella linea sottile di muro, in quella «zona morta» che non era né Berlino est né ovest, dove sembra che non ci sia niente ma invece lì c’è tutto, proprio in quello spazio indefinibile si condensa ogni cosa. Il passeur gode di una condizione di privilegio come quella del cadavere, lo hanno sottolineato diversi scrittori o tanti pittori. Il corpo che a noi appare morto contiene in sé tutta la vita, che è tutta lì depositata e perfetta, ma allo stesso tempo ci mette in contatto con qualcosa che a noi è assolutamente ignoto. Pur apparendo immobile, sappiamo che invece è un corpo ancora in trasformazione, e questo ha tanto a che fare col cinema.
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