Fabrizio Ferraro, nel deserto del presente
Intervista Il regista presenta «Wanted» e «Desert Suite», i due ultimi film usciti quasi in simultanea
Intervista Il regista presenta «Wanted» e «Desert Suite», i due ultimi film usciti quasi in simultanea
Fabrizio Ferraro è un cineasta estremamente prolifico, si sa, ma l’uscita pressoché simultanea dei suoi ultimi due film, Wanted e Desert Suite, muove da un coacervo di contingenze produttivo-distributive tutt’altro che edificanti (sulle quali, in questa sede, possiamo anche permetterci di soprassedere). I due titoli, sostenuti da elementi produttivi a dir poco eterogenei, si propongono di aprire il passo a un’inedita serie di variazioni cinematografiche consacrate alla figura archetipica dell’«inseguito» («Wanted»), serie opposta e speculare a quella, quasi del tutto conclusa (manca solo l’ultimo tassello del mosaico, sul poeta russo Mandel’štam), dedicata agli «indesiderati» («Unwanted»).
Su Wanted, primo capitolo dell’omonimo ciclo di film che verrà, prodotto da Vivo Film con Rai Cinema e già presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, dirò poche cose, essendone stato, prima che trepidante ed entusiasta spettatore, anche collaboratore alla sceneggiatura.
A margine di ogni possibile osservazione sui motivi lavorati dal film, nell’ipotizzare dialoghi e situazioni confesso di essermi spesso sorpreso a dialogare con alcuni fra i più appassionanti universi creativi che la critica maturata all’ombra dei Cahiers du cinéma (sponda jeunes turcs) e di Libération (sponda Serge Daney), critica della ragione e del sentimento, si è premurata di lasciarci in dote, da Bresson a Becker, da Rivette a Truffaut, da Hitchcock a Tarkovskij.
Detto altrimenti, da Un condannato a morte è fuggito a Il buco, da Paris nous appartient a Fahrenheit 451, da Intrigo internazionale a Stalker: ontologia della fuga, della paranoia e dell’astrazione. Per una volta, il critico, essendo parte attiva dei processi di costruzione del film, cede lo scettro al lettore, invitandolo a imbrigliare strascichi e assonanze.
Wanted è un film sul cinema e su un altro cinema possibile, ma anche su quell’oscura prigione del pensiero che ha preso forma in vetta agli apparati produttivi dell’audiovisivo contemporaneo.
Battendo coordinate analoghe, ma avvalendosi di un budget assai più contenuto, Desert Suite, visto alle Giornate degli Autori dell’ultima Mostra di Venezia, affonda il bisturi nel corpo di un presente che, almeno per una volta, ci è permesso sottrarre alle viscide manipolazioni dell’infotainment televisivo.
In una Rotterdam spettrale, sineddoche di un Occidente in cancrena, che trova il suo più fedele riflesso nei residui grafici delle macerie postbelliche (il dialogo che Ferraro stabilisce con i materiali d’archivio è da manuale), le droghe diventano l’unica via di fuga, illusoria, alla contemplazione coatta dell’orrore. In attesa di una (più che mai auspicabile) resurrezione dei corpi e delle coscienze: Desert Suite come una Night of the Living Dead scandita da un incedere musicalmente contemplativo?
Il Cinema Massimo di Torino, in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, presenterà i due film in un’ideale proiezione-fiume che ambisce, neanche troppo segretamente, a svelarne consonanze e corrispondenze: mercoledì 20 ottobre, alle 18:30 (Wanted) e alle 20:30 (Desert Suite).
Fabrizio Ferraro, come e dove collocare questa tua peculiare ricerca all’interno del cinema italiano contemporaneo?
La ricerca della collocazione è un buon modo per non trovarsi. Mettendo da parte una decina di cineasti, i registi italiani mi sembrano impantanati nella ricerca spasmodica del consueto. Di cinematografico non c’è quasi più nulla. Non ci sono battiti ma solo calcoli, come testimonia l’immagine stessa nel suo nuovo statuto. Non riesco proprio a collocarmi nelle definizioni. Mi sento parte di un movimento più ampio, in cammino, in fuga, in attesa, come un apolide.
Quali rapporti credi nutrano, fra loro, i discorsi rispettivamente sviluppati in Wanted e Desert Suite?
Rapporti di reciprocità e simmetria. I due film si muovono sulla soglia ideale che separa un perimetro di reclusione dal suo «fuori», anch’esso recluso però. Sarà ancora possibile evadere, ipotizzare un esodo, da questa nuova forma di prigione trasparente, apparentemente replicabile all’infinito?
Wanted e Desert Suite prendono forma all’interno di due prigioni metaforiche: in Wanted la prigione è Cinecittà, in Desert Suite, la Città. In fondo, lo spazio è grossomodo identico, uno spazio che parla della contemporaneità senza esaurirsi in prevedibili equazioni visive.
In un quadro di riflessione ideale avremmo fatto riferimento a prigioni astratte e metaforiche, ma ora le prigioni sono condizioni concrete, reali e presenti. In Desert Suite, era particolarmente forte la voglia di andare a vedere cosa ci fosse all’esterno delle mura di detenzione di Cinecittà. La situazione, d’altra parte, è veramente drammatica.
Produttivamente parlando, si tratta di due film molto diversi: il primo, girato a Cinecittà con un budget di livello medio-alto; il secondo, realizzato in giro per l’Europa (Rotterdam, Bruxelles, il Rossiglione francese), autoprodotto e autogestito. Eppure, osservandoli da vicino, ci si rivelano come film-gemelli.
Certamente, sono due film in pieno accordo, sia con il proprio movimento interno, sia con una forma produttiva necessaria al loro sviluppo. Wanted è una sorta di autopsia, un film radiografico su un organismo, ormai, quasi privo di vita. Ho detto «quasi»: al suo interno, infatti, sono ancora presenti dei movimenti e delle accensioni vitali. In Desert Suite, invece, si fa evidente l’esigenza di esplorare una pratica di vita indefinita, sfuggente, imprevedibile, che cerca purtroppo nel gesto nichilistico l’unico contatto possibile con l’esistente. Ma per individuare questa traiettoria c’era la necessità di una struttura produttiva dinamica, che sapesse costruire la propria indagine strada facendo, durante il suo stesso cammino.
Wanted, cosa per te insolita, è interpretato da attori dalla traiettoria ampia e articolata, da Chiara Caselli a Fabrizio Rongione, che portano un afflato nuovo, anche disorientante, nel cuore del tuo immaginario. Come si è prodotta questa vostra collaborazione? Qual è lo scarto fra l’attore e il non-attore?
Non credo sia presente uno scarto tra attori e non-attori ma solo una differenza, comunque sostanziale, nel processo di lavoro. Ho pensato che, per levare un grido di vita dentro il muro indistinto dello stabilimento cinematografico, fosse necessario un corpo recitativo molto ampio. Far emergere tonalità non solo consonanti ma anche dissonanti. Wanted manifesta almeno cinque tonalità, cinque «presenze», differenti. Al suo interno, sono presenti spettri così ampi da far apparire dissonante quello che nel cinema attuale può sembrare, a uno sguardo superficiale, accordato e consonante. In ciò credo risieda il grande gesto di ribaltamento operato da questo film «imprigionato».
Come pensi di proseguire il discorso avviato da questi primi due film della serie «Wanted»?
Abbiamo altri due capitoli, progetti, che spero ci sia ancora la possibilità di realizzare. Non dico di più.
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