Alias

Fabrizio Ferraro, l’arte della fuga

Fabrizio Ferraro, l’arte della fugaAlessandro Carlini e Catarina Wallenstein in «La veduta luminosa»

Intervista A proposito di «La veduta luminosa», presentato alla Berlinale

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 marzo 2021
Valerio CarandoBARCELLONA

Fabrizio Ferraro accompagna lo spettatore, novello Waiblinger, in un viaggio on the road sulle tracce di Friedrich Hölderlin. In termini similari a Gli indesiderati d’Europa, che non era un film «su» Walter Benjamin, La veduta luminosa non è un film «sull’» autore dell’Iperione. Senza ricorrere ai crismi della ricostruzione storica, evitando accuratamente la mediazione di un attore che incarni il poeta, Ferraro sposa la scelta più radicale: «entra» negli ultimi versi di Hölderlin – «La veduta» – con l’obiettivo di conferire sostanza visuale, materiale, alle parole sfuggenti di un uomo giunto al tramonto dell’esistenza. A muoverlo non è il desiderio di inseguire belletti, simulacri, involucri corporei, bensì di intercettare fra i versi del pensatore tedesco l’incantevole cadenza di un respiro che declina, i laceranti strascichi di una vita che va spegnendosi: «Quando in lontananza va la vita dimorante degli uomini / dove in lontananza splende il tempo della vite / là è anche il campo vuoto dell’estate / la selva appare d’immagini oscurate / Che la natura compia l’immagine dei tempi / permanga lei, loro scorrano svelti / allora è perfezione, l’alto dei cieli splende / all’uomo, come gli alberi di fiori si coronano».

Gli ultimi versi di Hölderlin, racchiusi ne «La veduta», più che suggellare una «fine» sembrano paventare un possibile nuovo inizio. Un’intuizione, questa, che il tuo film asseconda con struggente determinazione.
Quei versi sono incredibili. Andrebbero letti ogni giorno e fatti leggere anche nelle scuole di cinema. Hölderlin/Scardanelli riesce a far emergere con il suo poetare quella zona indicibile dell’esperienza in vetta alla quale è sufficiente mettersi in ascolto per cogliere «in lontananza» l’essenza del vivente.

«La veduta luminosa» non è un film «su» Hölderlin. Il film «sul» poeta esiste, intendiamoci, ma è un riflesso fantasmatico, un’ipotesi implicita, interna al tuo lavoro sui e con i personaggi. Il signor Emmer (Alessandro Carlini), un po’ come il Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) di «Otto e mezzo», insegue il disegno di un film impossibile, fatalmente destinato all’incompiutezza.
Quando non vuole essere l’esercizio di comunicati morali e cliché, il film si ritrova, a volte, in zone lievemente tracciate, dove l’incompiutezza coincide con la sua stessa messa al mondo. Eppure, nel costume attuale, sembra trionfare la necessità di riconoscersi solo nelle esperienze conformistiche, addomesticate, scandite da codici e norme; esperienze, nella maggior parte dei casi, di una violenza mortifera.

Il riferimento a Luciano Emmer, sperimentatore spesso incompreso eppure instancabile, non è casuale. Mi sovvengono, a tal proposito, gli «Unwanted» de «La ragazza in vetrina», quei minatori italiani di stanza nell’alienante Olanda degli anni Sessanta, braccati da una feroce solitudine.
Il riferimento non è affatto casuale. A pochi giorni dalle riprese, mi trovavo con Marcello Fagiani e Felice D’Agostino a ragionare su quanto la figura interpretata da Alessandro Carlini contenesse in sé la condizione dell’«indesiderato». Così mi sono chiesto quale nome si sarebbe accordato meglio con questa figura sfuggente, priva di identità specifica. Ragionavamo sui vari pseudonimi di Hölderlin: Killalusimeno, Salvator Rosa… Avevo rivisto pochi giorni prima alcuni film di Emmer. Ero rimasto impressionato dall’atteggiamento di sufficienza con cui questo Paese aveva risposto a un cineasta così sensibile, così vitale, così dotato. Ci è sembrato dunque naturale chiamare il protagonista, che è un regista, «signor Emmer».

«La veduta luminosa» è un grande film sul cinema, su due visioni del cinema opposte e apparentemente inconciliabili, che hanno modo di dialogare, forse di riconoscersi, solo nei silenzi.

È la storia di un incontro: l’esperienza di una prossimità resa possibile proprio dalla distanza.

Una tensione, quella di cui parli, che si esprime nell’asimmetria delle «presenze»: Alessandro Carlini, non-attore dal carisma istintivo, e Catarina Wallenstein, attrice dal fascino «costruito», legittimato dall’esperienza maturata tanto nel teatro di prosa quanto su set di notevole prestigio internazionale (Manoel de Oliveira, Raúl Ruiz, João Botelho…). Una frizione già presente, d’altra parte, ne «Gli indesiderati d’Europa».
Sono due presenze, come dicevamo, all’apparenza molto distanti. Alessandro Carlini è un attore straordinario, un vero «attivatore»; aveva già partecipato al SebastianO e fatto teatro con il regista Nino Pizza e la compagnia dei «nontantoprecisi». La loro differenza risiede nel modo di abitare lo spazio della scena. Catarina e Alessandro provengono da due mondi molto diversi: l’uno, in cui si pensa che bisogna adoperarsi e avanzare, mostrarsi, per fare qualcosa; l’altro, in cui ci si attiva sottraendosi, indietreggiando, lasciando emergere ciò che già esiste. Sono entrambe figure pulsanti, coraggiose, che puntano a incunearsi in uno squarcio, forzare il fondo di una chiusura.

Rispetto a quanto previsto in fase di sceneggiatura, come sei intervenuto a pianificare il lavoro sul set?
Come sempre. Il testo accompagna la costruzione del film, ma non è mai un traguardo da raggiungere. Abbiamo cercato di materializzare le sensazioni, i disagi, le tensioni, di far sparire il testo dinanzi all’enigmatica e vorticosa imprendibilità dell’esperienza.

In questo film approfondisci il lavoro di sperimentazione sulla tessitura del colore avviata nel precedente «Checkpoint Berlin».
Già in Checkpoint Berlin ci eravamo lanciati alla ricerca di quella luce sospesa che si irradia su due zone separate e le avvolge in un’unica stretta. Abbiamo semplicemente insistito su questa intuizione.

«La veduta luminosa» è il terzo capitolo di una serie consacrata agli «Unwanted», gli «Indesiderati». In quali termini credi che quest’ultimo film dialoghi con i due lavori precedenti, «Gli indesiderati d’Europa» e «Checkpoint Berlin»?
Le analogie sono innumerevoli. Per essere il più possibile sintetici, potremmo dire: Hölderlin è stato un grande «indesiderato», dileggiato dai compagni di cammino proprio perché aveva saputo sottrarsi – dopo una serie di cocenti delusioni – alle presunte verità del suo tempo. Le questioni che solleva Hölderlin sono attualissime. Per capire, ad esempio, ciò che sta accadendo ora, per cogliere il nesso del problema, invece di leggere trattati di politica, sanità, economia, basterebbe rivolgersi a Hölderlin, alla poesia in generale, bestia nera del linguaggio, della letteratura. La poesia torce il linguaggio, lo libera dalla sua forma di comando e potere, per questo sarà sempre messa al bando, confinata ai margini del mondo. Cos’è la poesia se non l’essenza stessa della nostra esperienza di animali parlanti?

Progetti per il futuro?
Altri due capitoli di questa serie consacrata agli «Unwanted», a cui tengo molto, e un progetto con la Vivo Film di Gregorio Paonessa e Marta Donzelli, che potrebbe segnare l’inizio di un altro ciclo, «Wanted», opposto e speculare a quello «Unwanted».

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento