Fabrizio Bellomo, paradossi delle immagini
Torino Film Festival Nel concorso documentari italiani di Torino «Anulloje Ligjin», un saggio semidiaristico di un’esplorazione in Albania
Torino Film Festival Nel concorso documentari italiani di Torino «Anulloje Ligjin», un saggio semidiaristico di un’esplorazione in Albania
Fabrizio Bellomo, artista, videoartista e regista, torna nel concorso documentari italiani di Torino con Anulloje Ligjin, saggio semidiaristico di un’esplorazione in Albania sulle tracce dei simboli del potere, tra le rappresentazioni degli apparati di regime del passato prossimo e la caotica proliferante modernizzazione del presente, dalle statue di Kristaq Rama alle formule di narrazione politica del figlio Edi Rama, senza smettere mai d’interrogarsi sul senso e sul ruolo dell’arte e degli artisti.
Iniziamo dal titolo. A un certo punto compare nel film, scritto su un muro.
Una traduzione letterale potrebbe suonare «annulla la legge». In realtà è da intendere «annulla il decreto», slogan degli studenti che protestavano contro un decreto di Rama sulle tasse universitarie. Per me rappresenta l’evanescenza dei simboli del potere. È anche l’utopia di un artista che si rende conto di quanto l’arte ,non sia libera per niente.
Questo film è un po’ lo specchio di Commedia all’italiana (film precedente di Bellomo ndr), ma fatto in Albania. L’Albania offre più stimoli. I paradossi di un paese arcaico che si sta normalizzando secondo un modello che viene dall’Europa e che in Europa è arrivato dall’America e in parte dalla Mitteleuropa.
Rispetto alla tua relazione con l’Albania, come è iniziata e come mai prosegue tanto intensamente?
C’è molto di più del mio essere semplicemente barese. Io sono per metà calabrese. Un mio amico scherzando dice che è il mio modo per prendere la Calabria non di petto. Le similitudini tra la vecchia Albania e la Calabria sono molte, i due territori hanno legami profondi. Questo c’entra, ma poi arriva il caso. Nel 2009 ci andai per la prima volta, in vacanza. Poi pian piano, grazie anche ai rapporti della film commission pugliese con l’Albania, la vicinanza alle opere di un artista come Adrian Paci, mi ci sono sempre più legato. Quando sono tornato nel 2022 c’erano già dieci anni di ricerche svolte per tanti progetti sviluppati e realizzati lì. L’Albania era in piena esplosione.
Questo film, oggi, è anche un lavoro sugli strati del tempo che riemergono dai ricordi, dagli archivi – che spesso vai a recuperare perché ti ricordi come erano i luoghi. La trasformazione, la transizione riguarda tutti, non solo uno Stato socialista e il suo passaggio al capitalismo, ma anche noi, ora, nel passaggio della transizione ecologica. La parola «transizione» fino a qualche tempo fa era quasi sempre usata in riferimento a un certo passaggio socio-economico, spesso all’interno di un regime totalitario, comunista o no, che passava al modello occidentale. Oggi la stessa parola è usata per raccontare la transizione ecologica, che in realtà è un altro tipo di passaggio socio-ecnomico. Vivendo questo tipo di situazione qui sei spinto a chiederti come è già successo altrove. In Albania nell’arco di trent’anni tante transizioni diverse sono avvenute insieme. Anche a livello linguistico e tecnologico: vedi immagini d’archivio dell’Albania rurale che sono girate in vhs. Da noi sarebbero in super8.
Molti minuti del film sono dedicati al lavaggio della panda che usate per spostarvi e si torna più volte sul lunotto posteriore dove il disegno stilizzato del monumento dedicato ai cinque eroi più volte scompare e riappare dall’acqua. Sembra il racconto del tentativo di cancellare una forma che non smette di riaffiorare. Ti chiederei di parlar di questo, cominciando dalla tua passione per il racconto della trasformazione del paesaggio urbano.
Penso che sia un discorso generazionale: essendo nati nell’82, è un po’ come se, in maniera diversa, sia io che Luan, la mia controparte albanese nel film, avessimo vissuto i nostri anni migliori nel momento di passaggio, tra socialismo e capitalismo. C’è poi anche quel che viviamo oggi in Italia. Un po’ in tutte le città e sulle coste, si assiste alla messa a regime del territorio che genera architettura e generando architettura colma spazi vuoti. Si perde così dell’informalità che viene riempita da strutture a griglia. Tutto questo viene poi mascherato dalla green economy, dal green washing. È un processo che riguarda, in modi e misure diversi, tanto la Cina o l’Albania quanto le città italiane. Il mio non è un film sull’Albania: è un’allegoria che prende spunto dall’Albania come luogo topico di contrasti, ma che parla della transizione e dell’evanescenza dei simboli del potere in generale.
Hai parlato della messa a regime del territorio urbano. Penso al tuo stile: nei film che fai cerchi una forma che sia lontana e in opposizione a una qualsiasi forma canonica. Tu centri tutto su una composizione fondata sul confronto e su una prosa che procede per paratassi.
La composizione per confronto credo sia un retaggio che mi porto dietro dalla fotografia. Si tratta di un escamotage fotografico interiorizzato. Riguardo lo stile, in generale direi che faccio di necessità virtù, se di virtù si può parlare: non avevo mai pensato di mettermi in scena nei miei film, però è una cosa che mi conviene sul piano produttivo. Mi serve nella costruzione immediata di un racconto, il mio corpo è un traino narrativo. Questo mi permette anche di girare leggero: il basso costo mi garantisce libertà. La libertà è anche rapidità. Le sessioni di riprese sono sempre molto toste; aiuta molto che siano il seguito di lunghe ricerche, anche se gli imprevisti e le scoperte sono le cose più interessanti. Esempio: la scena della panda di cui parli tu era stata pensata diversamente, come semplice lavaggio di quel disegno, di quel simbolo. Poi però siamo andati a mangiare il pesce e io ho ricalcato con la mano sporca il disegno. Quell’effetto non era previsto. Per noi è stata un’epifania.
Il tuo modo di girare, ancor prima del montaggio, sembra puntare sempre a lasciare il film come spazio aperto. Mi pare abbia anche a che fare con l’idea di evitare una gestione classica del potere del narratore che imposta una certa rappresentazione del mondo.
Sì, è così. Forse questo fa parte di come sono io. In Commedia all’italiana (film che gioca con le ragioni e le storie dietro la toponomastica ndr) dico che voglio essere una strada senza nome. Questo si lega al tipo di «sinapsi» di montaggio che immagino mentre giro, che poi a volte saltano per aria. Nei film che faccio poi c’è un impianto saggistico e quindi la forza dell’avanzare della narrazione non la cerco in chiave classicamente narrativa, ma nell’accostamento delle immagini, nei reciproci e vicendevoli rimandi tra i simboli. Di nuovo, tutto procede per accostamento analogico di matrice fotografica. È anche un metodo che mi lascia molta libertà: posso fare equazioni multiple delle quali salvarne solo una al montaggio.
Mi pare ci sia una progressione nel modo in cui usi in questo film i molti materiali d’archivio.
Per questo film la ricerca è stata più approfondita e più lunga del solito, prima e dopo le riprese. Le storie che siamo andati scoprendo in modo casuale ci erano spesso presentate in modo sommario, lacunoso, mentre ricercando un po’ scoprivo ogni volta molte sfaccettature, molti diversi risvolti. Le molte microstorie che costituiscono la Storia del Paese le conosci e le capisci solo cercando immagini in giro sulla rete.
Nel film una figura molto in luce è uno degli scultori del regime che è anche il padre dell’attuale primo ministro albanese. Non hai avuto la tentazione di prolungare il tuo discorso muovendo dal costruttore di simboli del regime del passato al costruttore di storytelling del sistema di potere presente?
Ci sono sempre gli artisti dentro i miei film, artisti decaduti. Mi rivedo nei fallimenti altrui che sono fallimenti per la società in cui vivo, ma non lo sono per me. Edi Rama c’è nel finale, che è breve ma forte. Sembra un film distopico: i rivoltosi che se la prendono con la statua di un fungo e il primo ministro che risponde: lo ricostruiremo più grande. La tentazione di andare direttamente da lui l’ho avuta. Non sarebbe stato irraggiungibile, ma ho capito che se lui oggi vedesse questo film molto probabilmente gli piacerebbe.
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