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Fabriano Fabbri, fenomenologia dell’abito con risvolti polifonici

Fabriano Fabbri, fenomenologia dell’abito con risvolti polifoniciNicole de Lamarge indossa un abito di Pierre Cardin per una copertina del «Sunday Times Magazine» degli anni ’60, foto di Peter Knapp

Universo indumentale Erede della allegoria barocca che vuole la Storia strappare gli anni al Tempo e trapuntarli di fili d’oro e di seta, Fabriano Fabbri, per Einaudi, si dedica a immortalare la «Moda contemporanea»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 31 ottobre 2021

Sottratta all’ipoteca accademica della Storia, a lungo ancella di storie specialistiche – del Costume, dell’Arte, o delle Arti figurative nel loro complesso, ma anche del gergo ingegneristico relativo all’abito/abitare/vivere lo spazio – la Moda emerge, per vie non banali, quale disciplina autonoma, in senso assoluto, così come varrebbe per Architettura, nel secondo volume che le dedica Fabriano Fabbri, La moda contemporanea II Arte e stile dagli anni Sessanta alle ultime tendenze, Einaudi, pp. 791, € 38,00) confermando l’impegno modernistico di questa ricerca nel suo complesso.

Fabbri avanza nella Moda all’insegna non dello spazio ma del tempo. Più esattamente della con-temporaneità. Plaga sincrona espansa su tre secoli, la moda contemporanea – così come su un orizzonte tutto occidentale la disegnano i suoi due volumi – si estende dall’anglo-francese Worth a Alessandro Michele per Gucci, l’ultimo degli autori trattati, la cui novità, leggiamo, «rigurgita un bolo di passatismo».

Un mood resuscitatorio
Nel celebre incipit manzoniano la «Historia» era «una guerra illustre contro il Tempo», al quale strappava gli anni «già fatti cadaveri» e li schierava di nuovo in battaglia, per poi imbalsamarli con i suoi inchiostri, e trapuntarli di fili d’oro e di seta che ne dipingessero le imprese gloriose. Lo sfarzo richiesto ai cadaveri per apparire vivi assicurava loro una momentanea vittoria sul Tempo, e in prospettiva sulla Morte. Di quella allegoria barocca il lavoro di Fabbri è l’erede moderno. Scartato l’impianto storicistico, ciò che resta potrebbe sembrare una storia della moda organizzata, invece che sul calendario, su una «fenomenologia di passerelle regolate dall’alternanza delle generazioni». Oppure sulla «rotazione tra i nati “attorno alle” decadi pari e i nati “attorno alle” decadi dispari già applicata da Worth a Pucci». In fondo, si tratterebbe solo di una iniezione di cronologia astrale.

Ma su questo punto interviene il «bolo di passatismo» di Alessandro Michele, a dirci come la verve espressiva del critico sia di fatto l’ultima comparsata del mai sopito cadavere-attore di manzoniana memoria. La Moda di cui qui si parla è «con-temporanea» nel senso che, come una sonata, può tenere dentro di sé tempi diversi. Non è un caso che l’ultimo capitolo si intitoli proprio «La sonata del tempo». Nell’accentuato mood revivalistico che lo pervade è possibile leggere una ennesima resuscitazione, in gergo Moda, dell’Angelus Novus benjaminiano, il cui sguardo restava fisso sulle rovine del passato, mentre una tempesta di vento lo sospingeva in avanti alla cieca.

Secoli, forse millenni, di teoria estetica hanno depositato nella nostra mente quel «museo immaginario» – come lo definisce Malraux – che ci fa credere di sapere cosa sia e come idealmente si collochi una statua, un ritratto, un reperto archeologico. Ma questo processo evolutivo non ha avuto luogo relativamente all’universo indumentale nel quale ci presentiamo a noi stessi e al mondo. Di conseguenza non abbiamo a disposizione un museo immaginario della Moda. Di qui le difficoltà teoriche, prima ancora che pratiche, che immancabilmente incontra il progetto del Museo di Moda. Di qui anche la difficoltà di un linguaggio che dica la Moda. Il cui doppio tempo Fabbri esegue su un registro linguistico che, come uno spartito musicale, non illustra, ma è, la cosa stessa.

La marinistica «meraviglia» che se ne genera nel lettore è frutto delle infinite variazioni di tono e di ritmo di cui questo linguaggio è capace. Nella musica, del resto, e in particolare nel rock, questo secondo volume trova un punto di riferimento costante. Più radicalmente che nel primo, vi viene azzardato un progetto di linguaggio che, partendo da quello della Storia dell’arte, subito se ne distacca e, senza farsi problemi di «alto» e di «basso», accorda fiducia all’informazione «gossipara» che l’autore – giustamente gossiparo egli stesso, nonché, al pari della Moda, con-temporaneo – mutua dalla «astuzia revivalista di chi sa maneggiare il catalogo dei dati culturali, degli stereotipi pescati dal passato». Perché, conclude, «questo sa fare la Grande Bellezza di Valentino». E questo – ossia tenere più voci dentro di sé – sa fare la Moda, sempre diversamente con-temporanea. Ciascuna delle 761 pagine del volume è in questo senso una cascata di diamanti, costruita ad hoc.

Troppa didattica
Scelgo, dall’ultimo capitolo, un campione in linea con questo anno dantesco: «E poi, quante idee, quanti input si possono rastrellare dalla Divina Commedia? Quale spettacolare catalogo di efferatezze pulp e mirabolanti torture, fra i gironi dell’Inferno dantesco? Altra sonata del tempo è McQueen, con Dante, autunno-inverno 1996-97, allestita in una chiesa con tanto di scheletro seduto in prima fila, che rilegge l’opera magna del Sommo Poeta e la rinforza con stampe ricavate dai dipinti di Jan Van Eyck, di Hans Memling, pittori dalla pennellata tersa e dura come le forme mcqueeniane, poi usa le immagini della guerra del Vietnam di Don McCullin, a cortocircuitare un inferno bellico con tessuti preziosi, da Grande Bellezza». Arbasino docet.

C’è ancora, tuttavia, nell’assedio a 360 gradi degli accostamenti imprevisti, nel libero fluttuare dei ritagli di memoria filmica, nel subito riaccendersi di residui ottici dispersi nell’ambiente da curatele di moda del millennio, troppa scoperta didattica, perché la scrittura possa funzionare, da sola, come effetto speciale. Soccorrono le 235 preziose tavole illustrate.

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