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Fabre, saghe su un mondo parallelo

Fabre, saghe su un mondo paralleloTavola dell’illustratore Edward Julius Detmold per il Libro degli insetti di Fabre

Classici dell'etologia Da Adelphi il primo volume dei Ricordi di un entomologo di Jean-Henri Fabre, l’«Omero degli insetti» (Hugo): un’opera tentacolare, «contro» la scienza

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 25 ottobre 2020

Ha raccontato un pianeta parallelo. Trasfigurandolo attraverso la vita degli insetti. Uno scienziato visionario o uno scrittore di fantascienza? Inclassificabile, anche se le sue quasi ossessive osservazioni sui comportamenti degli insetti inducono a «sistemarlo» tra gli entomologi, come forse credeva o si illudeva d’essere. Passabilmente l’inventore di una non scienza sul confine dell’immaginario, coniugata con un mondo espressivo che per comodità è chiamato letteratura. Le «definizioni» non sono tuttavia facilmente applicabili a Jean-Henri Fabre, celebrato autore di un sublime «canone», Souvenirs entomologiques. Études sur l’instinct et les mœurs des insectes pubblicato in dieci volumi tra il 1879 e il 1907.
Un «assaggio» dell’opera di Fabre (i primi due volumi) arrivò in Italia nel 1972 grazie a un ormai introvabile «Millennio» Einaudi curato da Paola e Giorgio Celli. Con la nuova traduzione di Laura Frausin Guarino, l’«insettario» di Fabre torna adesso in libreria per le edizioni Adelphi, primo volume dell’opera omnia: Ricordi di un entomologo («Biblioteca», pp. 680, euro 38,00), con una prefazione di Gerald Durrell: «Jean-Henri Fabre ha avuto un ruolo fondamentale nella mia vita, fin da quando avevo otto anni … Soprattutto mi affascinavano gli insetti …»: appunto gli «abitanti» del pianeta parallelo raccontati come una saga da un eccentrico scrittore che tuttavia non appare in nessuna storia letteraria e quando, notissimo, affiora – Omero degli insetti come lo definì Victor Hugo, e Un osservatore inimitabile secondo Charles Darwin – si colloca in un indefinibile empireo a mezzo tra lo scienziato, il rapito contemplatore di universi altri, il collezionista di stranezze, il flâneur, botanico e magari chimico improvvisato. Anche poeta: autore di versi nella lingua della Provenza, regione dove Jean-Henri Fabre passò la maggior parte della sua vita.
Era nato il 22 dicembre 1823 a Saint-Léons du Lévézou nell’Aveyron nella regione dell’Occitania. Famiglia poverissima. Nessuna istruzione regolare ma fervente autodidatta che riuscì a conseguire diversi riconoscimenti accademici. Si dedicò all’insegnamento. Nel 1853 ad Avignone fu nominato professore, tutore di fisica e chimica al Liceo Imperiale dove dispensò per diciotto anni lezioni di storia naturale, chimica, cosmografia, geometria, fisica e aritmetica. Divenne curatore del locale Museo di Storia Naturale, dove impiantò un laboratorio in cui sperimentava i coloranti e dispensava pubbliche lezioni di chimica. Con la polvere della radice robbia riuscì allora a produrre il rosso di garanza per tingere i tessuti, in particolare i pantaloni rossi della fanteria francese. Ad Avignone, abitava al 14 di rue des Teinturiers, in una casa che ancora esiste, appoggiata a una roggia, dove al tempo di Fabre si assiepavano i laboratori dei tintori. Fu probabilmente quella comunanza a suggerire all’inimitabile osservatore di sconfinare anche verso la tintura dei tessuti. E fu alla casa di rue des Teinturiers che approdò Louis Pasteur, venuto a consultare Fabre, la cui fama si era intanto diffusa. I bachi da seta in Francia erano stati spazzati via da una disastrosa epidemia. Forse il «celebrato entomologo» avrebbe potuto suggerire un rimedio. In cucina, seduto su uno sgabello di paglia, Fabre espose a Pasteur la biologia del bombice di gelso e i mezzi per selezionare le uova non infette. L’improvvisata «lezione» diede i suoi risultati. Pasteur riuscì ad arginare l’epidemia. Dalle parti di rue des Teinturiers approdarono personaggi come John Stuart Mill, direttore della Compagnia delle Indie Orientali, grande estimatore e uno degli amici più fedeli di Fabre; e Victor Duray che, Ministro della Pubblica Istruzione di Francia, convocò Fabre a Parigi per conferirgli la Legion d’Onore e presentarlo a Napoleone III.
Nel 1871 un curioso incidente infranse l’universo avignonese del professore: i suoi corsi serali gratuiti di botanica avevano attratto agricoltori curiosi della scienza e giovani donne. Accusato d’aver osato spiegare la fecondazione dei fiori a fanciulle ritenute innocenti i corsi furono aboliti e Fabre denunziato quale pericoloso sovversivo. Inerme davanti a un inspiegabile attacco, si dimise dall’incarico al liceo. E a compimento dell’affaire, suscitatore di tanto scandalo tra i benpensanti avignonesi, le padrone di casa di rue des Teinturiers, vecchie signorine bigotte convinte della immoralità del professore, gli ingiunsero, con moglie e figli, di lasciare l’alloggio entro un mese. Soltanto l’aiuto di Stuart Mill, che anticipò la somma di tremila franchi, consentì a Fabre e alla sua famiglia di potersi stabilire a Orange.
Ed è durante il corso di quelle giornate che, entomologo a tempo pieno, andava costruendo una impropria autobiografia attraversando un mondo parallelo. Nel costruire la tentacolare opera non segue nessun filo logico, nessuno schema. Divaga. Racconta le proprie osservazioni sulla vita e i comportamenti degli insetti. Si rivolge polemicamente al mondo della scienza: «Voi sventrate la bestia e io la studio vivente: voi ne fate un oggetto d’orrore e di pietà e io la faccio amare, voi lavorate in un laboratorio di tortura e di spezzettamento, io l’osservo sotto il cielo turchino, al canto delle cicale; voi sottomettete ai reattivi la cellula e il protoplasma, io studio l’istinto nelle sue manifestazioni più elevate, voi scrutate la morte, io scruto la vita…».
Fabre racconta la vita delle centinaia di insetti «spiati» con ostinata passione e pazienza «sotto il cielo», descrivendo microscenari d’esistente con sorprendente chiarezza: «soltanto i fatti precisi sono degni della scienza» anche se le sue «saghe entomologiche» evocate con insuperabile rigore stilistico hanno fatto assimilare l’opera letteraria di Fabre a quella di un sublime divulgatore più che la relazione di uno scienziato. Ci si può così abbandonare al piacere delle pagine di Fabre con la partecipazione di chi assiste a vere a proprie storie suscitate dalla vita pulsante d’ogni essere coinvolta in essenze spontanee e primordiali, e in questa contingenza esplorata con una zoomata che irrompe fin all’infinitamente «piccolo», dentro a un brulicante pianeta, un mondo «a parte» con i suoi «istinti» – termine ampiamente usato da Fabre in contrapposizione a ogni forma di intelligenza.
Il letteratissimo universo di Fabre, più pensatore e poeta che gelido osservatore, riesce a far intendere teoremi esistenziali inaspettati: la mosca turchina della carne e i coleotteri geotropi suggeriscono pensieri sull’igiene, le abitudini di alcune vespe che colpiscono le loro vittime paralizzandole evocano riflessioni sulla lotta per la vita: «Cose spaventosamente scientifiche» è il commento di Fabre, abitudini che permettono di conservare le vittime nei nidi fino al momento in cui saranno divorate dalle larve… e poi le pagine dedicate alla descrizione «architetturale» della tela dei ragni e quelle dei costumi degli scorpioni dove Fabre ascende a perfette costruzioni stilistiche… la mantide religiosa che divora l’amante dopo l’accoppiamento; l’ammofila, nota come vespa delle sabbie, che batte le elitre fremendo in una rituale danza vittoriosa sopra al bruco pugnalato con il suo pungiglione… e poi la rievocazione degli scenari paesaggistici dove quegli «eventi» si manifestano: «Ecco come andarono le cose. Eravamo cinque o sei, io il più vecchio, il maestro, ma soprattutto il compagno e l’amico; loro, giovani dal cuore ardente, dalla fervida immaginazione, traboccanti di quella linfa che scorre nella primavera della vita e ci rende così esuberanti e assetati di conoscenza. Chiacchierando del più e del meno lungo un sentiero costeggiato da siepi di sambuchella e biancospino, dove la cetonia dorata già si inebriava di sentori amari sui corimbi fioriti, andavamo a vedere se lo scarabeo sacro fosse comparso sull’altopiano sabbioso di Les Angles [villaggio del Gard, di fronte ad Avignone]…». Lo scarabeo stercorario è uno degli insetti preferiti da Fabre, intanto per la sua lucente bellezza e si intuisce soprattutto nella partecipazione con cui racconta l’impegno che il coleottero pone nello spingere, simile a un Ercole che sorregga il mondo, la pallottola di sterco verso la sua tana.
Grazie al formidabile stile dello scrittore Fabre si assiste a una imparagonabile rappresentazione teatrale correlata da tavole fotografiche scattate dal figlio Paul per la composizione delle quali si può immaginare la regia del magnifico entomologo. In un’opera come quella di Fabre si sarebbe portati a supporre di trovare delle planches di uno scientificismo esasperato con le figure degli insetti raffigurate in stecchite immobilità. La medesima delle scatole entomologiche dove in «graduali collezioni» gli esemplari sono trafitti da uno spillone. Le tavole di Ricordi di un entomologo sono invece la messa in scena della «vita quotidiana», della «lotta per l’esistente» di una visionaria «umanità»: Il cantiere dello scarabeo sacro, Lo sphex dalle ali gialle: il dramma e il trasporto della vittima, Bombix che trascina un tafano, L’ammofila irsuta nella sua tana, Il pompilide anellato che spia la tarantola dal ventre nero…

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