E’ di casa a Venezia Jan Fabre, anche seppur non invitato a partecipare alla Biennale, ma ospite dalla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo in trasferta sulla laguna. Nel 2007 l’artista belga aveva esposto molte sue opere a Palazzo Benzon, nel 2009 alle Nuove Tese dell’Arsenale, aveva invece allestito l’imponente installazione From the Feet to the Brain mettendo in scena il suo corpo ingigantito e dissezionato. Quest’anno è la volta di Glass and Bone che raccoglie i lavori scultorei realizzati nell’arco di quarant’anni, dal 1977 a oggi. La mini-retrospettiva – ubicata nella ex abbazia di San Gregorio, a pochi metri da Punta della Dogana (dove il visitatore può vedere metà della mostra di Hirst) – sarà visibile fino al 26 novembre.

Curata da Giacinto Di Pietrantonio, Katerina Koskina e Dimitri Ozerkov, la mostra è co-organizzata con l’EMST di Atene e l’Hermitage di San Pietroburgo, spazio quest’ultimo dove, qualche mese fa, Fabre ha messo in scena un formidabile dialogo tra le sue opere e la ricca collezione del museo russo. Del resto il maestro fiammingo è votato alla contaminazione e all’interdisciplinarietà, al confronto con culture iconografiche diverse, seppur attraversate dalle medesime tematiche esistenziali e artistiche. Le 37 opere in mostra a Venezia, dalle sculture vere e proprie agli interventi più ambientali, nascono quasi tutte dall’assemblaggio di due materiali: il vetro di Murano e le ossa umane e animali (da qui il titolo della mostra). Ovvero, una preziosa materia locale (e questo riferimento a Venezia e alla sua cultura appare imprescindibile per comprendere il senso della mostra, il suo genius loci), conosciuta in tutto il mondo; e una materia organica, altrettanto delicata, che rimanda alla fragilità condizione mortale e alla natura effimera degli esseri viventi. Il tema della vanitas appare assolutamente fondante nell’immaginario di Fabre

L’allestimento studiato dall’artista è rigorosamente simmetrico: per esempio, nei quattro corridoi al primo piano dell’Abbazia che affacciano sul chiostro, Fabre ha posizionato 16 piccole sculture concepite appositamente per questo spazio: 16 teschi in vetro di Murano dipinti con il solito inchiostro blu Bic (da lui adottato per moltissime altre opere) che addentano scheletri di piccoli animali (uccelli di varie specie, talpe, camaleonti). Simmetria che si ripete in molte altre sale, secondo una specularità di vuoti e di pieni, un bilanciamento di positivo/negativo, come nel caso di Untitled (Glass Ear) e Untitled (Bone Ear), dove a un orecchio vitreo si contrappone un orecchio osseo, entrambi incollati su lastre di vetro inchiostrate di blu. Oppure la coniunctio oppositorum di maschile/femminile, come in The Future Merciful
Phallus and Vagina (2011) dove in cima a due mucchi di vitree ossa trasparenti disposti ai due angoli di una sala, affiorano un pene e una vulva.

A prescindere dalla consequenzialità del percorso, la bellezza della mostra sta anche nei rimandi formali e concettuali che le opere e le installazioni stabiliscono a distanza, tra i due piani.

Una delle opere ambientali più riuscite della mostra è sicuramente The Catacombs of the Dead Street Dogs, qui in una nuova versione rispetto a quella originale del 2009. Una stanza accoglie i postumi di un party, con i coriandoli in vetro di Murano che penzolano dal soffitto e gli scheletri di varie dimensioni con il cappello a forma di cono: siamo di fronte a un’allegoria carnascialesca della morte, connotata da un’esplosione di colori, rispetto alla maggioranza delle altre sculture dominate da due soli colori di fondo che risuonano nelle sale dell’abbazia: il bianco e il blu, l’opaco e il trasparente, il liquido che si trasforma in solido, il solido che si ridurrà idealmente in polvere. L’uso delle ossa potrebbe apparire inusuale e bizzarro, ma in realtà – come nota Katerina Koskina in uno dei saggi che compone il catalogo della mostra – deriva da una lunga tradizione, soprattutto nordica e quindi assai familiare per Fabre. I pittori fiamminghi, infatti, polverizzavano le ossa «per creare i pigmenti già nel quindicesimo secolo, mentre un altro tipo di ossa era ambito in epoca bizantina: l’avorio, dotato di rarità, bellezza e forza, era un materiale assai richiesto per gli oggetti di lusso d’uso sia religioso che laico. Con uno spirito diverso, forse più vicino a quello di Fabre, l’ordine dei Cappuccini adoperò i resti dei quattromila monaci morti fra il 1528 e il 1870 per decorare la piccola cripta della chiesa di Santa Maria della Concezione. Questo genere di decorazione era in linea con la lunga tradizione del memento mori nell’arte, destinata non tanto a promuovere il macabro, quanto ad alludere alla brevità della vita sulla Terra e alla nostra mortalità». E tra le opere in mostra vi sono anche le sagome di alcuni monaci (realizzate nel 2002) con la struttura in fil di ferro ricoperta da frammenti di ossa.

Le lavorazioni delle opere in vetro sono state fatte presso la fornace Berengo Studio a Murano, un laboratorio attraverso il quale sono passati molti nomi importanti dell’arte contemporanea, come Thomas Schütte, Tony Cragg, Jaume Plensa ed Erwin Wurm (quest’anno ospite nel padiglione austriaco della Biennale). E, a proposito del suo rapporto con l’artista belga, Adriano Berengo afferma: «Soprattutto con Fabre ho assistito a metamorfosi, commistioni tra sacro e profano, manifestazioni oniriche quasi trascendentali, ed ho sempre sostenuto con un pizzico di follia i progetti più ambiziosi».

Inutile aggiungere che una lettura alchemica non solo e non tanto di Glass and Bones ma di tutta l’estetica di Fabre, è quasi obbligata. Fabre è l’artista-alchimista che riflette sull’arte del passato, sui suoi segni e simboli, ripensandola e trasfigurandola nell’arte del presente, sotto le diverse forme, dalla performance al disegno, dalle immagini in movimento alle installazioni pitto-scultoree, ma soprattutto plasmando le materie più classiche e pregiate in contesti nuovi e infondendo loro ulteriori significati.

Nel chiostro dell’abbazia la prima scultura in cui ci imbattiamo è, non a caso, lo scarabeo stercorario di vetro verde (insetto caro a Fabre, considerato sacro nell’antico Egitto, simbolo di metamorfosi anche spirituale e di eterno ritorno) sul cui dorso si erge un albero di alloro (che allude alla sublimazione). Ed è molto illuminante ciò che Melania Rossi scrive in un altro testo del catalogo: «La posizione di questo scarabeo-totem al centro del chiostro, il carattere epifanico della sua apparizione
e il nostro movimento intorno ad esso per cercarne la chiave di lettura, fanno pensare […] alla scena epica di 2001: Odissea nello spazio in cui appare un enigmatico monolite nero, interpretazione tanatofobica e minimale della piramide di cristallo scintillante de La sentinella di Arthur C. Clarke, racconto a cui è ispirato il film. Come quella di Kubrick, anche la sentinella-scarabeo di Fabre arriva da lontano e porta il germe di un nuovo pensiero. Sono entrambi messaggi di un Prometeo futuristico».

L’arte è un infinito processo di trasformazione per Fabre, artista instancabile e pirotecnico, in cui versatilità e prolificità si manifestano come il segno di una tormentata smania di trasmutare la realtà in una temibile e inquietante bellezza.