Alias

Fabbrica del ricordo per Pia Valentinis

Fabbrica del ricordo per Pia Valentinis/var/www/ilmanifesto/data/wordpress/wp content/uploads/2015/01/09/ferriera pagg

Ultravista Nella graphic novel "Ferriara" l'autrice racconta la storia del padre operaio con un paziente lavoro di raccolta di testimonianze ed elaborazione artistica

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 10 gennaio 2015

“Nato a Udine il 18.5.1928, nazionalità italiana, professione: attrezzista laminatoio”. Anomali oggetti le carte d’identità: l’ho sempre avvertito e oggi particolarmente. Sì, rappresentano un riconoscimento, una attestazione d’esserci per noi stessi e per il mondo, ma al tempo stesso inchiodano a pochi rachitici dati, mentre il fuoricampo immane di una vita resta escluso. Cosa c’è dietro la dicitura “attrezzista laminatoio”, cosa significava per chi era nato nel 1928 e che cosa significa adesso per noi? Il lavoro: questo sconosciuto. Il lavoro: il grande rimosso. Quanto ci rendiamo conto che ciascuna/o di noi può ancora contribuire con la memoria, con la consapevolezza e con l’azione a contrastare l’enorme scientifica impresa di smantellamento del lavoro, della coscienza e dei diritti dei lavoratori perpetrata nel corso degli ultimi 30 anni? Che ancora continua, demolizione distillata e strategica, fino ai “Jobs act”, fino alle poi ritirate precettazioni durante lo sciopero generale.

Pure quella carta d’identità può diventare altro, se a ridisegnarla, se a ritracciarne la foto tessera, è una mano ispirata da affetto e da ricerca di verità. Allora accanto alla C.I. compare piccola la scritta “mio padre” e la storia non è più una “come tante”, ma quella soltanto, unica irriducibile. La storia di Mario Valentinis raccontata da sua figlia Pia, illustratrice dal tocco magistrale e inconfondibile, qui alle prese, come autrice totale, con la sua prima graphic novel: Ferriera (Coconino Press, Fandango).

E se anni fa, nella bellissima mostra bolognese Pippi e le sue illustratrici (e quanto anche per Pippi il padre era importante!), la sua bambina dai capelli rossi spiccava per le capacità di sollevare una enorme sorprendente carico di scheletri, mostri e paure, in quest’opera struggente onesta e autoironica, Pia Valentinis si è accinta a “sollevare” la vita di suo padre (mancato nell’87), della sua famiglia d’origine e la sua stessa infanzia. Dal nonno antifascista, operaio morto sul lavoro sistemando una lastra di eternit, a suo padre, prima lavoratore in fabbrica a soli 11 anni, e poi capofamiglia a 14, all’incontro con colei che sarà la madre di Pia, all’emigrazione in Australia dapprima come bracciante, poi ancora come operaio, fino al ritorno a Udine, fino a quando un suo compagno di laminatoio, causa pulsantiera difettosa, non morirà in modo deflagrante innanzi ai suoi occhi …

Tutto questo e altro ancora Valentinis ha indagato temerariamente: dai gusti del padre, al suo amore tenerissimo per gli uccellini, per John Wayne, ai giochi da piccolo, alle malattie contratte sul lavoro, ai turni di mezze ore, al reparto più terribile: la fonderia, alle uscite con la bora che lo faceva respirare … alla forza collettiva inarrestabile degli scioperi. Fino al suo odore, cui “proustianamente” dedica un’intera pagina bianca: “misto di sudore, fatica, vino, nazionali senza filtro, ferro infuocato e fumo oleoso”. Qualcosa che nessun tentativo di erosione dell’identità potrà mai cancellare.

La gestazione di Ferriera e cosa significa per la tua vita.

Ho iniziato a fare illustrazione per libri per bambini nel ’91. Poi, per una serie di coincidenze, ho continuato così per molti anni, finché a un certo punto ho sentito l’esigenza di andare oltre le immagini, di scrivere. Ferriera è nato dal farsi strada di questa necessità. In quel periodo mi ero messa a studiare il fumetto, provando a creare pagine che poi inviavo ad amici per avere un parere. Tra queste, a un certo punto, ne ho disegnata una ispirata a un mio sogno. C’era la testa di un compagno di fabbrica di mio padre. E rotolava davanti a lui. Qualcosa che avevo rimosso al punto da non sapere nemmeno se fosse legato a un fatto reale. Allora ho cominciato a fare domande a mia madre e lei mi ha confermato che era accaduto davvero, anche se non se non rammentava né l’anno né il nome dell’operaio. Da qui in poi sono come entrata in una sorta di monomania: volevo sapere di più volevo ricordarmi volevo che questo operaio avesse un nome … (Anche se poi ho scelto di non di non metterlo). E pian piano mi sono rammentata di me e mio padre in cucina a leggere l’articolo di cronaca che raccontava dell’incidente accaduto al suo compagno, la sua umiliazione per lo scarsissimo rilievo dato alla cosa.

Dunque questa traccia si è come aperta da sé.

Sì, non c’è stata nessuna decisione a priori. Solo dopo mi sono resa conto di quanto avessi bisogno di entrare in questo racconto. Al di là della dimensione professionale. Infatti non sono partita con un progetto vero e proprio: non avevo una scaletta e quando c’è stata l’ho cambiata un sacco di volte. Ben diverso è rifarsi a un testo che già esiste. Qui ogni pagina era una montagna da scalare. Dal sogno sono andata ricostruendo il mondo di mio padre, il mondo operaio e quello dell’emigrazione. Per me è stato enorme. Come racconto, nel libro, ci sono stati periodi in cui mi sono vergognata di mio padre e probabilmente avevo bisogno riprendere in mano quella parte della mia vita, di capire che cosa significasse davvero lavorare al laminatoio, una mansione che oggi si svolge in modo completamente differente.

Quali sono state le tue fonti?

Come dicevo, innanzitutto mia madre. A mio padre stesso non potevo chiedere perché era già mancato. Compagni di lavoro non ne ho trovati, così ho cominciato a cercare sui giornali, sia su “L’Unità” sia soprattutto sui giornali locali. Di grande aiuto mi è stata l’opera di Gino Dorigo, che ha dedicato diversi libri al mondo operaio di quegli anni, raccontandone le vicende. Tra queste c’era quella del collega di mio padre, c’era l’episodio della testa. Nel raccontare avevo paura di essere imprecisa, di cadere nelle banalità che si dicono quando accade una morte bianca. Allora ho visto Morire di lavoro di Segre e, sull’Australia, ho ascoltato le interviste per Radio Onde Furlane fatte da Loris Vescovo agli emigrati in quegli anni. Ho ricordato di quando con mio padre vedevamo Bello onesto emigrato Australia … e ridevamo.

Cosa ha significato per te parlare in modo così focalizzato e multiprospettico di lavoro e farlo tramite una figura affettiva come quella di tuo padre?

(Lunga pausa, ndr).

Questa pausa mi fa pensare alle pagine bianche del libro, ai suoi lunghi respiri.

È vero che non sapevo più cosa fosse un laminatoio, è vero che ho dovuto cercare e ricomporre le tante tessere di quel mondo operaio, ma è anche vero che ho parlato di tutto questo perché in qualche modo profondo mi apparteneva da sempre, perché tutta la mia infanzia lo avevo assorbito, perché ho vissuto lì in mezzo, vicino agli operai… In questo senso, la dimensione del lavoro di mio padre e quella affettiva sono per me inseparabili, sono parte della mia umanità.

Il libro ha una dimensione che io sento militante, sembra voler dire riparliamo di questo … Pensiamo in particolare a quanto è accaduto negli ultimi mesi, nuovamente a corrodere l’art.18, ma anche alle 37 lavoratrici sarde e alla loro vittoria.

Riparliamo di questo e ricordiamo il passato. In questo presente precario in cui si pensa solo all’attimo che si sta vivendo, non possiamo stare soltanto a guardarci l’ombelico. Dobbiamo per lo meno guardare il passato, se vogliamo capire chi siamo ora e cosa vogliamo. Secondo me per essere militante, si può partire dal piccolo dalle piccole storie …

Di tuo padre racconti che non sopportava certi snobismi intellettuali ma che “sapeva capire i bisogni autentici” (penso al bellissimo bouquet di matite di cui ti fa dono). Quest’estate leggevo un’intervista a Bianca Berlinguer … Da lui ti sei sentita riconosciuta?

Sì, questo riconoscimento c’è stato ed è stato importantissimo per me. A mio padre piaceva starmi a guardare mentre disegnavo. Era una cosa un po’ imbarazzante, ma al tempo stesso molto affettuosa. Del resto anch’io lo aiutavo a saldare. La comunicazione tra noi non passava attraverso le parole, ma attraverso un fare insieme.

Infine gli uccellini, poesia che si effonde su tutto il lavoro.

È una traccia che in un primo tempo pensavo di rendere più importante. Poi invece l’ho lasciata come un filo leggero, quasi evanescente. Quando all’inizio parlo della mancanza della voce di mio padre, ho disegnato una piuma. Gli uccellini sono legati alla contemplazione, ai suoi momenti di libertà, fuori dal lavoro. Sì, poi è chiaro che mio padre li considerava come gli animali che venivano fatti morire al posto suo e dei suoi compagni (usati come cavie per i gas tossici, ndr). Per tutte queste ragioni li amava e ci chiedeva di fare silenzio se una canarina stava covando … Davvero qualcosa di molto suo.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento