Il polo di Taranto ieri si è fermato per un giorno intero: hanno incrociato le braccia, presidiando gli ingressi, i dipendenti di Acciaierie d’Italia (che gestisce l’impianto), quelli dell’Ilva in amministrazione straordinaria (la società a cui è rimasta la proprietà degli impianti) e i lavoratori delle aziende dell’appalto e dell’indotto. La protesta è stata indetta da Fim Cisl, Fiom Cgil, Uilm e Usb. Dai sit in davanti agli accessi si sono poi mossi in direzione della portineria C, la più grande dello stabilimento. Giovedì la Corte Ue ha comminato 4 condanne all’Italia perché a Taranto è ancora in pericolo la salute dei lavoratori e dei cittadini. La qualità dell’aria, secondo Arpa Puglia, è persino peggiorata. E anche il lavoro sta sparendo.

A fine marzo Acciaierie d’Italia (controllata da ArcelorMittal e Invitalia) ha messo circa 2mila dipendenti tarantini in cassa integrazione per un anno, in Ilva sono in circa 1.700 in cig straordinaria. «Non è possibile gestire una fabbrica così complessa attraverso il massiccio utilizzo di ammortizzatori sociali con un’assenza di programmazione di manutenzione ordinaria e straordinaria e una crisi dilagante per i lavoratori dell’appalto, che pagano un duro prezzo in termini di ritardi sugli stipendi e di avvio di procedure di cassa integrazione per cessazione di attività» l’accusa delle organizzazioni dei metalmeccanici.

Entro maggio la quota di Invitalia sarebbe dovuta salire al 60% ma non accadrà, l’obiettivo dichiarato di portare la produzione a 5,7 milioni nel 2022 (riassorbendo la cig) è lontano nonostante il mercato dell’acciaio faccia segnare livelli record. I sindacati puntano il dito contro il governo: «Vogliamo risposte sulle strategie di rilancio del siderurgico, sull’assetto societario, sul piano industriale e ambientale, sulla sicurezza e sui livelli occupazionali. Pretendiamo un tavolo di confronto permanente al Mise. Non è pensabile che si discuta di transizione ecologica, decarbonizzazione, impianti a idrogeno senza affrontare le criticità».

L’ad di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, ieri si è presentata alla portineria A, i dipendenti non hanno apprezzato: «Via da Taranto, i lavoratori chiedono rispetto. Lo avverte il peso dei morti?» le hanno urlato. Valerio D’Alò (Fim Cisl): «Le grida di protesta di operai che sono in cig a 900 euro al mese esprimono stanchezza profonda per un rilancio che non si vede mai». Gianni Venturi (Fiom Cgil): «Dopo la decisione dell’azienda di attuare la cassa integrazione in modo unilaterale, arriva l’ennesima provocazione dell’ad Morselli. Invece che ai cancelli nel giorno dello sciopero, dovrebbe presentarsi più spesso nelle sedi in cui c’è il confronto tra le parti. Sembra si sia scelta la strada di un’involuzione autoritaria dei rapporti negli stabilimenti del gruppo, tra pressioni, sospensioni, licenziamenti disciplinari, per non dire di ciò che sta avvenendo nelle imprese dell’indotto. Questo clima è cresciuto dopo l’ingresso di Invitalia e rappresenta l’altra faccia di una medaglia che vede la “diserzione” del governo Draghi dagli impegni assunti».

Rocco Palombella, segretario generale Uilm: «L’ultimo incontro con il ministro Giorgetti risale a tempo fa, poi più nulla. Mittal a livello globale ha fatto utili per oltre 4 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2022, segnando il record dell’80% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Allo stesso tempo ha completamente marginalizzato Taranto, tenendo il sito a scartamento ridotto. La scelta dell’attuale ad vuol dire solo una cosa: annientare lo stabilimento di Taranto. Come se non bastasse, hanno chiesto lo sconto sia sul prezzo di acquisto che sull’affitto. Quello che vogliono è un regalo, è assurdo».