Acciaierie d’Italia e Ita sono due società nate o rinominate grazie al capitale pubblico. La prima è attualmente cogestita da Mittal e stato e a breve sarà a maggioranza pubblica, la seconda è ancora interamente a capitale del ministero dell’Economia. Sono gli esempi più lampanti e importanti del nuovo interventismo pubblico post Covid, di (ri)nazionalizzazioni dopo gli esiti nefasti di lunghe privatizzazioni. La pandemia ha ridefinito in tutto il mondo un nuovo protagonismo statale in economia. Ma la specificità italiana – specie con il governo Draghi – porta a esiti negativi, se non vergognosi, sulla pelle dei lavoratori.

Lunedì al ministero del Lavoro l’amministratrice delegata Lucia Morselli di Acciaierie d’Italia non si è presentata al tavolo con i sindacati che chiedevano di ridurre il numero di 3mila lavoratori da porre per l’ennesima volta in cassa integrazione a Taranto e negli altri stabilimenti ex Ilva. La scorsa settimana Italia trasporto aereo è stata condannata per discriminazione nei confronti di due lavoratrici in gravidanza perché si è appurato che delle 416 assistenti di volo assunte dalla società guidata da Alfredo Altavilla nessuna donna ha usufruito dei permessi maternità.

Ad accomunare Acciaierie d’Italia e Ita c’è un’incredibile anomalia: sono società pubbliche guidate però da manager privati che si comportano da padroni in completo sfregio dei diritti dei lavoratori e dei sindacati. Se nel caso dell’ex Ilva si può parlare dell’ennesimo capitolo delle Morselliadi, la manager tagliatrice di teste già alla Berco e all’Ast di Terni fa dell’indisponenza il suo tratto più riconosciuto, nell’ex Alitalia Altavilla ha applicato il «metodo Fca» dal principio, partendo come primo atto dall’uscita dal contratto nazionale per poi tagliare il più possibile il costo del lavoro.

Non meno grave è la totale mancanza di guida e reazione a ciò che è accaduto da parte del ministro Daniele Franco – che insieme a Draghi ha scelto Altavilla. La specificità italiana dunque è data dal fatto che il nuovo ruolo pubblico si limita a un intervento puramente finanziario senza alcuna strategia industriale e interesse per i livelli occupazionali e i diritti dei lavoratori. Un comportamento che si conferma anche in altri settori come quello bancario – con Mps in cui il «problema esuberi» è considerato secondario – e quello delle telecomunicazioni – con Tim nella quale Cassa depositi e prestiti è secondo azionista e sta appoggiando lo spezzatino-scorporo della rete che rischia di produrre 10 mila esuberi. Nessun ministro in Francia e Germania si comporterebbe così.

Senza scomodare il Protocollo Iri del 1984 sottoscritto da Romano Prodi che prevedeva per le aziende pubbliche la codeterminazione fra manager e sindacati, servirebbe almeno un po’ di «politica industriale», espressione sparita dal vocabolario dei governi nostrani da quasi 20 anni.

Quasi a contrappasso invece la Stellantis (ex Fca) di Tavares è costretta a trattare anche con quella Confindustria da cui Sergio Marchionne uscì per poter implementare la sua «rivoluzione» che ridusse i diritti dei lavoratori e cacciò la Fiom dai suoi stabilimenti, prima dell’intervento della Corte costituzionale. Anche qui comunque i sindacati sono esclusi da qualsiasi confronto. Solo un fugace e improvvisato incontro accordato per domani mattina. Il «metodo Fca» ha fatto scuola ovunque.