Un cielo plumbeo, qualche nuvola che minacciava pioggia, e decine di agenti in tenuta antisommossa schierati hanno accolto ieri a Roma i lavoratori dell’ex Ilva di Taranto per una manifestazione organizzata dai metalmeccanici di Fim, Fiom, Uilm, che ormai da diversi mesi denunciano le condizioni disastrose in cui versano gli stabilimenti del gruppo di Acciaierie D’Italia, «a causa della mancanza di investimenti e di manutenzioni ordinarie e straordinarie», lamentano i sindacati.                       Mentre nelle fabbriche di Genova e Taranto venivano proclamate 24 ore di sciopero, il corteo delle tute blu, intanto, si disponeva lungo via Cavour. E dalle casse risuonavano le canzoni di Gaber, Fiorella Mannoia, anche dei Baustelle, e Bella Ciao.

Luigi è un operaio che conosce la cassa integrazione già da qualche anno. È arrivato qui insieme a quattro autobus partiti ieri notte dal capoluogo ligure, e dice: «dall’arrivo di Arcelor Mittal ci troviamo in una situazione altamente drammatica. Io sono un turnista e carico i rotoli di acciaio in banchina al porto. Il mio stipendio ha subito un taglio robusto nel corso degli anni. Siamo qui per chiedere investimenti e maggiore produzione». E poi, quando gli chiediamo se è a conoscenza del fatto che a queste condizioni un aumento di produzione significherebbe anche maggiori rischi di ammalarsi per gli operai e i cittadini di Taranto, Luigi fa spallucce, ed afferma: «certo, non bisognerebbe rischiare la vita per lavorare, e far ammalare chi si trova fuori dalla fabbrica. Di fronte alle notizie nefaste che arrivano da Taranto, ogni discorso di rivendicazione economica decade, ma lo spegnimento degli impianti significherebbe soltanto lasciare un cadavere per strada senza che nessuno più lo voglia rimuovere», conclude. Paolo, invece, è un altro operaio siderurgico che è arrivato da Piombino. È in cassa integrazione dal 2014 e lavorava all’interno dell’altoforno che poi hanno chiuso dopo l’’accordo di programma per la riqualificazione siglato dall’azienda con la regione Toscana e l’allora governo Renzi. Anche l’acciaieria di Piombino è finita nelle mani di una multinazionale-come a Taranto- Jindal South West, ed anche qui lo Stato ha investito centinaia di milioni di euro per risanare gli impianti e per continuare a pagare le casse integrazioni degli operai. 

«È giunto il momento di smettere di dare risorse pubbliche attraverso decreti legge a queste multinazionali senza prevedere nessun tipo di transizione ecologica», urla al megafono Francesco Brigati, segretario provinciale della Fiom di Taranto, mentre il corteo si snoda per raggiungere piazza Santi Apostoli. E ancora, dice il sindacalista: «il gruppo Mittal, con l’appoggio di questo e di altri governi, hanno portato a distruzione lo stabilimento. In fabbrica vediamo solo l’aumento degli inquinanti. È il momento di dire basta. O il governo ci ascolta e la smette di fare accordi parasociali oppure continueremo con la mobilitazione», conclude.

Poco prima dell’arrivo in piazza, la tensione è alta e l’esplosione di qualche petardo sta lì a segnalarlo. D’altronde, la disperazione tra le tute blu di tutta Italia è anche tanta. Tra gli operai che sono giunti a centinaia da Taranto, soprattutto. Giovanni Lippolis è uno di questi. E, al microfono del palco improvvisato dove da lì a poco parleranno i segretari delle tre organizzazioni sindacali reduci dagli incontri a Palazzo Chigi, dice: «sono bastati poco più di undici anni alla classe politica e alla multinazionale Arcelor Mittal per distruggere il più importante impianto siderurgico italiano».                        E ancora: «undici anni, cioè dal 26 luglio 2012, quando l’area a caldo della fabbrica fu sequestrata dai magistrati, che sono serviti unicamente a dividere ancor di più i cittadini e gli operai di Taranto che ogni giorno combattono contro i danni sanitari che l’inquinamento prodotto dalla fabbrica ha causato». E ora quello che ci resta, a noi lavoratori, oltre ad essere messi quasi tutti in cassa integrazione», continua l’operaio: «è mangiare pane e veleno, con gli operai delle aziende dell’indotto che addirittura subiscono dumping contrattuali e non ricevono lo stipendio da mesi».

Qualche minuto dopo, uscendo dall’incontro di Palazzo Chigi dove i segretari confederali hanno incontrato i capi di gabinetto di tre ministeri, ma nessun ministro, Rocco Palombella, di Uilm, rivela: «ci è stato detto che si considera Arcelor Mittal un interlocutore credibile, nonostante in questi anni non abbia prodotto alcun risultato, sotto nessun punto di vista. Finché siamo in tempo diciamo al Governo di fermarsi perché bisogna evitare di concedere altri fondi pubblici a una gestione fallimentare». Così anche Michele De Palma, di Fiom Cgil, annuncia che per il prossimo 7 novembre sarà convocato un tavolo di crisi a Palazzo Chigi. E, fino ad allora, promette De Palma: «la mobilitazione unitaria non si ferma». Quello stesso giorno- ironia della sorte-la Corte di Giustizia Ue discuterà la questione pregiudiziale sollevata dal tribunale di Milano sui rischi alla salute derivanti dalla concessione dell’autorizzazione ambientale allo stabilimento di Taranto.