Di Valeria Babini, anzi di Valeria Paola Babini sono stati pubblicati molti libri, tutti saggi in cui la storia della scienza, della psicologia e della letteratura si intrecciano, indagando personaggi e nodi del secolo scorso, da quello su Bergson a quello sul caso Murri, da quello sui manicomi e la psichiatria di Basaglia a quello delle scrittrici «armate» del Novecento, tra resistenza ed emancipazione. Gli alberi già lo sanno (La Tartaruga, pp. 173, euro 18), è dunque un esordio in campo narrativo, e non può essere un caso che l’autrice scelga di firmarlo come Valeria Babini, tralasciando il suo secondo nome, come a voler sancire una separazione tra la pubblicazione del suo primo romanzo e la produzione saggistica che ha accompagnato la sua carriera universitaria fino ad ora, per condurci in un luogo più intimo e segreto, in un vero e proprio lessico famigliare. Ed infatti, sebbene sia scritto in terza persona, il romanzo rivela sin dalle prime pagine l’autenticità scottante del memoir. La protagonista, Vera, ha il cuore che scoppia: ha appena perso Mario, suo marito, dopo 51 anni trascorsi insieme, e solo alcuni mesi più tardi perderà anche sua madre, Ada.

IL RITRATTO DI VERA apre il romanzo: «Vera riposa. Seduta sulla poltrona, le mani incrociate e abbandonate sulla gonna. Sola». È un doppio ritratto, quello che l’autrice tratteggia con le parole e quello che le parole rimandano, come pennellate, ricreando davanti agli occhi del lettore un quadro di Felice Casorati, La ragazza sulla poltrona. Vera è quella ragazza, solo più matura, dal viso duro e malinconico. Il romanzo si apre teatralmente, come un sipario: Vera è già in scena e su quella poltrona rimarrà seduta per quasi tutta la durata del romanzo a pensare il pensiero, come le piace dire. La morte, si sa, rende immobili – sfruttando l’ambiguità del verbo riposare – ma il pensiero continua a generare altro pensiero, a scalfire il dolore.

L’incipit è potente, e lascia intravedere un altro rimando, questa volta letterario: Vera riposa è un chiasmo perfetto del moraviano Entrò Carla, solo che ne Gli Indifferenti, Carla si nasconde dietro una maschera, mentre Vera, come il nome stesso suggerisce, è autentica, dolorosamente autentica. Accanto a lei loro, gli alberi che quel pensiero lo sentono, lo assorbono. Gli alberi già lo sanno: un titolo che sembra un omaggio a quel verso di Emily Dickinson preso in prestito da Pia Pera per raccontare la propria malattia e scelto come titolo del proprio libro: Al giardino ancora non l’ho detto. Con la differenza che Vera ai suoi alberi – pioppi, cipressi, abeti, betulle – non ha nemmeno bisogno di dirglielo: gli alberi già lo sanno, e forse già lo sapevano prima di lei. Gli alberi, specchi del pensiero, confessori, testimoni silenziosi.

La morte sottrae a Vera un interlocutore privilegiato: «Mario, ma dove sei? Dove sei? Cosa faccio della mia vita se non posso raccontartela?». Urla Vera, scoppiando in un pianto impetuoso. Vita e racconto sono strettamente legati, tanto che, come ha notato Luigi Zoja nel suo Sogni, visioni, profezie (su «Doppiozero»), «sebbene noi crediamo di comporre racconti, sono invece i racconti a comporre noi (…) Il racconto della vita, infatti, è più importante della vita. La vita è personale, il racconto è di tutti».
Venuto a mancare Mario, Vera sente l’urgenza di vedere la propria vita narrata e, per farlo, parte dal racconto della vita della propria madre, dei propri genitori, della propria famiglia. C’è un segreto nella vita di Ada che affonda le radici nella guerra, e il suo svelamento diventa il filo narrativo dominante del libro. «Non si lasciano che dei segreti, ha pensato Vera appena sveglia»; c’è, però, una resistenza maggiore, quando i segreti riguardano la vita dei nostri genitori, una sorta di tabù che si ha paura di infrangere. «Le viene da pensare che i genitori appaiono, si ergono, entrano in scena nella vita dei loro figli come giganti misteriosi. E la loro storia resta sconosciuta e impenetrabile, a meno che non siano loro stessi a volerla raccontare. Quale e come poi?».

PER FARE AFFIORARE questo segreto, Vera procede per piccoli indizi e allo stesso modo procede Babini per raccontarlo: «le piace seguire il suo intuito e ama le tracce, come i cani. Forse, si dice, il suo mestiere di storica viene di lì, da quel suo fiuto canino». Dalla vecchia scatola di latta rossa Elah (caramelle che nutrono), Vera pesca ricordi, ma la memoria è piena di burle, va corretta. Una foto dal bordo tagliato attira la sua attenzione; decide di alzarsi e prende una lente, si aggrappa a quel pezzetto di fotografia strappato come a una reliquia: e come aggrapparsi a qualcosa che non esiste più se non con le parole? La letteratura, i versi disseminati nel libro, i rimandi visibili ed invisibili, si offrono a colmare una mancanza. La memoria, insieme alla guerra, è un tema centrale nel romanzo, una «memoria del cuore», come la definisce Babini, e squisitamente bergsoniana, come si evince da una delle tante digressioni che caratterizzano il romanzo: «Per lei il ricordo è qualcosa di perfettamente confezionato e compiuto, il ricordo-targa, epitaffio. Mentre la memoria, come la sente Vera, è presenza: non è al servizio dell’io, non è utile per cogliere la realtà o riconoscerla. Non fa passato, fa vita. Allarga il presente, riportandoci indietro, in dono, qualcosa di altrettanto o più vivo di quella che chiamiamo realtà». Impossibile non rinvenire nel personaggio di Vera qualcosa dell’autrice, non tanto perché entrambe hanno «insegnato e trascorso giornate intere sole in mezzo alle carte e alla polvere degli archivi», e nemmeno per le iniziali in comune. Se ne sarà accorta l’autrice che Vera è contenuta in Valeria? O è uno dei tanti scherzi dell’inconscio, freudianamente un inciampo della lingua? «L’inconscio è pieno di burle, va corretto», nota Vera, volgendo il pensiero al suo sogno.

LA TENTAZIONE DI SEGUIRE la pista onomastica è subito forte, non tanto per attestare la veridicità del racconto (chi altresì più di Vera potrebbe farlo?); quanto perché è la stessa protagonista ad indicarcela: in una mattina ricoperta ancora dalla galaverna Vera va al parco e vede un uomo giocare con il suo terrier. Sente chiamarlo «Popper» ed è chiaramente meravigliata e divertita dalla scelta del nome: «No, le ha risposto l’uomo si chiama Hopper, Hopper come il pittore americano». Popper-Hopper: basta un cambio di iniziale per spostare lo sguardo dalla filosofia della scienza alla pittura. Un procedimento analogo lo usa Mario per inventare il nomignolo con cui la chiamava: Creipniz, nato dall’incontro di Leibniz e il settentrionale «crapa», mostrandole così di avere ben capito che tutto quel rimuginare era una parte costitutiva di lei, come i suoi capelli castani, i suoi occhi chiari, e l’odore della sua pelle; Creipniz, a indicare nella testa di Vera il luogo privilegiato del loro amore, e insieme del romanzo stesso: «Il corpo è dominato dalla potenza della mente, tace come un cagnolino addomesticato. E per fortuna è nella mente che tutto continua a vivere, e gli Invisibili sono più presenti dei vivi».

SE L’IMPORTANZA onomastica nel romanzo di Babini non fosse apparsa ancora abbastanza evidente ci pensa Vera a confermarla: Il nome, si dice Vera, è importante; parte di lì tutta la storia di tutti noi. E Mario? «Mario, dove sei? Dove sei?». Mario è in ogni cosa, talmente presente da defilarsi e lasciare il posto al racconto di altre vite, per poi ricomparire all’improvviso nel romanzo, e rimanere impresso nella memoria, lui magrissimo e leggero come se non fosse fatto di materia.
Ma il ritratto forse più autentico di Mario è la descrizione di quella sua fotografia, piccolissima e smerigliata, che lo ritrae bambino con una pettorina ricamata in stile altoatesino, preludio di quella ballata tirolese in cui qualche volta si lanciava all’improvviso. «L’ultimo lo ricorda bene, fu in ospedale poco dopo l’intervento: teneva larghi gli estremi di quella specie di gonna che hanno i camiciotti ospedalieri allacciati dietro alla schiena e saltellava come un grillo cantando un jodel».
Mario: che sia un omaggio a Tobino, psichiatra e scrittore, le cui riflessioni, affidate ai diari, accompagnano Vera in un lungo e solitario viaggio in Piemonte? Una cosa è certa, anagrammando il suo nome, esce la parola amori.