«Non sono una femminista radicale, perché non credo nell’efficacia della mentalità dell’assedio. Però conosco i problemi legati all’essere donna: nel corso degli anni le donne che ho fotografato mi hanno parlato di sé e della loro vita. Ognuna aveva la sua storia da raccontare, femminile sì ma anche assolutamente umana» – scrive Eve Arnold (Philadelphia, 1912, Londra 2012) in Unretouched Woman (1976) –. Nel mio lavoro alcuni temi ricorrono di continuo: sono stata povera e ho voluto documentare la povertà; ho perso un figlio e sono stata ossessionata dalle nascite; mi interessava la politica e ho voluto scoprire come influiva sulle nostre vite; sono una donna e volevo sapere delle altre donne. Attraverso il mio lavoro, negli ultimi 25 anni ho cercato me stessa, ho indagato il mio tempo e il mondo in cui vivo».

Robert Penn, Eve Arnold on the set of Becket, England, 1963 © Eve Arnold Magnum Photos

NATA COHEN (il marito era Arnold Arnold), Eve è figlia di genitori ebrei russi – William (Velvel Sklarski) e Bessie (Bosya Laschiner) – emigrati negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali, quinta di nove figli. Di cibo in casa non ce n’era mai abbastanza, ma con il padre leggeva il Cantico dei cantici in ebraico e se quella Rolleicord che le aveva regalato un amico nei primi anni ’40 non l’avesse portata a osservare il mondo più da vicino, probabilmente avrebbe fatto il medico o la scrittrice, forse la ballerina. Il portamento, del resto, ce l’aveva con quell’innata e sobria eleganza (i capelli sempre raccolti nello chignon basso) che l’avrebbe contraddistinta per tutta la vita.

Così appare all’inizio del percorso di Eve Arnold. L’opera, 1950-1980 (fino al 7 gennaio) – la mostra curata da Monica Poggi e promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì con il Comune, in collaborazione con Camera di Torino e Magnum Photos al Museo civico san Domenico di Forlì – nel ritratto di Ferdinando Scianna in occasione dei Rencontres d’Arles 1988, come pure nella foto del ’93 firmata da Paul Fusco in cui è vicina a Inge Morath: le due prime donne a entrare nel 1951 nell’agenzia Magnum.

ALLESTITA da Studio Lucchi & Biserni, l’esposizione comincia con una «time line» impreziosita da riviste d’epoca come Picture Post, Life, The Sunday Time Magazine, aperte nelle pagine dei servizi realizzati dalla fotografa, parte del corpus di 170 immagini in bianco e nero e a colori delle sei sezioni. Da «Black is Beautiful» ai reportage in giro per il mondo – Cuba (1954), Cina e Mongolia (1979) e altri – non mancano le foto legate al cinema, dentro e fuori i set con Paul Newman all’Actor’s Studio Cafe nel ’55, le giraffe accanto al ciak romano del film La Bibbia di John Houston (‘65), Marlene Dietrich durante la sessione notturna di registrazione alla Columbia Records (New York ’52), Silvana Mangano nella sala Brancusi del MoMa (’56) e, naturalmente, le super star Marilyn Monroe e Joan Crawford.

Foto Manuela De Leonardis

SONO IMMAGINI che provengono in parte dall’archivio Magnum o sono state ristampate per l’occasione da Daniel Pope, perché l’archivio – «The Eve Arnold Papers» – con i suoi 88,9 piedi lineari d’ingombro (circa 27 metri) tra stampe fotografiche, negativi, provini, diapositive, diari, corrispondenze, documenti cartacei, video e registrazioni sonore – è stato venduto dalla stessa autrice, nel 2003-2006, alla Yale University – Beinecke Rare Book and Manuscript Library.
Arnold ha sempre avuto consapevolezza dello strumento che aveva in mano: con un dichiarato senso civico che la portava a stare sempre dalla parte di coloro che subivano le ingiustizie, ha saputo intercettare l’intimità del momento di cui era testimone. Lo ha fatto anche in situazioni difficili, come quando ha fotografato Malcom X a Chicago e Washington (’51) o durante il servizio sulle modelle nere di Harlem che, nel 1950, fu il suo trampolino di lancio.

In Retrospect (1995) – il passaggio è citato nel catalogo Eve Arnold. L’opera, 1950-1980 pubblicato da Dario Cimorelli Editore – è lei stessa a ricordare quel momento: «Ero nervosa, mi tremavano le mani; non erano le persone a farmi paura ma temevo di non riuscire a produrre buone immagini. Non era ancora esploso il movimento per i diritti civili e la contrapposizione tra le ’razze’ non era ancora così evidente, quindi le persone sorridevano e si mettevano in posa davanti a me. Del resto come poteva essere altrimenti, ero così visibile. Ben presto trovai il modo di andare nel backstage. Pensavo che lì avrei potuto scattare delle foto senza che nessuno facesse troppo caso a me, vista la frenesia dei preparativi per salire in passerella. Fabulous aveva un portamento straordinario. Si muoveva come una belva dorata, un leopardo forse, o una tigre. Quando vide il mio viso bianco (e la macchina fotografica nera) cominciò a fare i capricci come le modelle bianche sulle passerelle di quei tempi. Lezione numero uno: fare attenzione all’invadenza della macchina fotografica».

Marilyn Monroe mentre legge l’Ulisse di Joyce, Long Island, New York, 1955, Eve Arnold, Magnum photos

Il modo di muoversi con discrezione e rispetto le aveva fatto conquistare la stima di Marilyn Monroe che aveva fotografato anche in Nevada, nel ’60, sul set del suo travagliatissimo e ultimo film Gli spostati (The Misfits), girato interamente con la sceneggiatura di Arthur Miller. Il sorriso dell’iconica diva è velato da una percepibile tristezza, riflesso delle sue note vicende biografiche. Non è certo come quello spontaneo colto in un momento di relax nell’Illinois, nel ’55, quando Arnold l’aveva fotografata scomposta sulla poltrona con sopra il centrino all’uncinetto, in tubino e piedi nudi gonfi con i segni delle scarpe strette. Un attimo d’intimità che sfugge al rigido controllo dell’immagine di sé, diametralmente opposto eppure così vicino alla serie di scatti dedicati a Joan Crawford mentre si trucca a Hollywood per una scena del film Donne in cerca d’amore (1959). Nel provino a contatto le rughe sul suo bellissimo volto, quelle palpebre un po’ gonfie restituiscono la forza dietro la fragilità. L’obiettivo di Eve Arnold indugia sulla matita nera con cui la star esalta il suo sguardo, sulla linea che ripercorre il profilo delle labbra, sul piegaciglia e ancora sul mascara che rende le ciglia più folte. Una scrittura sulla pelle che nell’esaltare la bellezza naturale dell’attrice (allora cinquantatreenne) la rende più «umana».