Evaporating Suns, nel Golfo, storie antiche e modernità
Mostra «Evaporating Suns», prima mostra in Svizzera dedicata alle artiste e agli artisti del Golfo Persico
Mostra «Evaporating Suns», prima mostra in Svizzera dedicata alle artiste e agli artisti del Golfo Persico
Il flusso delle parole dette, intercettate, ascoltate e poi restituite in una narrazione visuale ricca di metafore attraversa l’intera mostra Evaporating Suns – Contemporary Myths from the Arabian Gulf, curata da Munira Al Sayegh in collaborazione con Verena Formanek alla fondazione Kulturstiftung Basel H. Geiger | KBH.G di Basilea (fino al 16 luglio).
Un’esposizione che si focalizza sui miti contemporanei nei paesi della regione del Golfo Arabico o Persico, ovvero sulle variabili di quelle storie orali che hanno per lo più come protagoniste entità soprannaturali nate dalla mente dell’uomo tra regole ancestrali, tradizioni culturali, superstizioni religiose, folklorismo e fantasiose manipolazioni del reale.
Antiche storie e credenze popolari che creano un corto circuito con le radicali trasformazioni socio-economiche e architettonico-urbanistiche di questi paesi dagli anni ’60 ad oggi (dopo la scoperta dei giacimenti petroliferi, l’industrializzazione e la globalizzazione), come la leggenda di Zahwa con l’ibridazione dell’animale mitologico per metà orice e per metà serpente o quella di Salama e le sue figlie (un «jinn» gigante che la leggenda vuole risieda in fondo allo stretto di Hormuz), di al-Uzza («la Potentissima») che con Manat e Allat fa parte della triade di divinità femminili venerate in epoca preislamica nell’area di Hegra nell’Hijaz; ci sono poi gli scritti dell’alchimista Jabir ibn Hayyan e le tante altre narrazioni che sfidando la traiettoria lineare del tempo nell’elaborazione e proiezione in una dimensione contemporanea operata da più artisti/e (Farah Al Qasimi, Mashael Alsaie, Alaa Edris, Bu Yousef, Abdullah AlOthman, Moza Al Matrooshi, Maitha Abdalla, Saif Mhaisen, Fatima Uzdenova, Asma Belhamar, Mays Albeik, Fatema Al Fardan e Zuhoor Al Sayegh, provenienti da Abu Dhabi, Dubai e Sharjah (Emirati Arabi Uniti), Manama (Bahrain) e Riyad (Arabia Saudita).
Storie decostruite e liberamente reinterpretate. Sono undici le artiste e tre gli artisti appartenenti alla generazione nata tra il 1978 e il ’98 – «la presenza femminile è notevolmente superiore a quella maschile non per seguire un trend, semplicemente perché nei paesi del Golfo il numero di donne che studia arte e intraprende la carriera artistica è maggiore a quella degli uomini», spiega Munira Al Sayegh – le cui opere sono state quasi tutte commissionate e prodotte dalla fondazione svizzera fondata nel 2019 dall’artista e filantropa Sibylle Piermattei-Geiger (1930 -2020) e diretta da Raphael Suter.
Oltre a organizzare la mostra a ingresso libero, accompagnata da uno stimolante programma di eventi, KBH.G ha prodotto un catalogo in inglese/arabo pubblicato da Hatje Cantz (distribuito gratuitamente al visitatore). La duplice potenza generatrice e distruttrice della natura è alla base della maggior parte dei lavori presentati in questa prima mostra istituzionale dedicata all’arte contemporanea dei paesi del Golfo, organizzata nella Confederazione elvetica. Molte artiste e artisti hanno ascoltato quelle storie direttamente dalla voce narrante delle nonne e delle madri, in particolare Mashael Alsaie, Moza Al Matrooshi e Farah Al Qasimi che, con le loro opere, ribaltano la narrativa convenzionale indirizzandola verso prospettive inedite che coniugano l’apparato concettuale con tecnica e linguaggio artistico. Ad esempio, la reazione del franchincenso a contatto con il vetro incandescente, che nel passaggio dallo stato liquido a quello solido incapsula la pregiata resina aromatica, nella volontà di Mashael Alsaie riporta l’attenzione sull’origine della sorgente naturale di Adhari in Bahrain, oggigiorno diventata un parco di divertimenti alla moda.
Il processo di metamorfosi degli esseri umani in vegetazione, animali e minerali appartiene alla storia dell’umanità, spesso associato alla violenza subita dalle donne: c’è una certa similitudine tra la ninfa Dafne che per sfuggire all’aggressione di Apollo, descritta da Ovidio in esametri dattilici nel poema epico Le Metamorfosi, viene trasformata in albero di alloro e la giovane vergine nel boschetto di palme violata da uno strano uomo. Dalle lacrime della fanciulla, secondo la leggenda, sgorgò la bellissima Ain Adhari con le sue acque fresche e limpide, soggetto della fotografia realizzata da Alsaie con la tecnica dell’esposizione multipla e stampata su un tessuto trasparente, parte dell’installazione Barren Spring (2022 -2023).
La brutalità dell’accadimento è rappresentata proprio dalla violenza dell’incontro del franchincenso (impiegato nella cultura dei paesi della penisola arabica sia per i rituali quotidiani di purificazione di persone e ambienti che nelle cerimonie religiose) che, come fa notare l’artista, nasce in forma di resina – «le lacrime degli alberi di Boswellia» – con il vetro fuso che lo ingloba dando forma a 13 sculture. La trasparenza del vetro ha anche un ruolo decisivo nel disvelamento di questa storia secretata. Invece, per Moza Al Matrooshi in The Blessing of the Rice (2023) si tratta di scardinare una prospettiva occidentale, negoziando il concetto di «verità» con le sue diverse sfaccettature, nella sua opera multidisciplinare che include 60 pezzi di ceramica, elementi sonori e performance. La fonte d’ispirazione è il documentario Behind the Veil (1971) realizzato per la BBC dalla nota fotografa Eve Arnold. La trama del film di 50 minuti si dipana intorno alla ritualità del matrimonio reale di Sheikh Rashid bin Saeed Al Maktoum e Shaikha Alia, a Dubai, con scene che documentano anche la preparazione dei cibi, le danze, le cerimonie, il modo di vivere delle donne.
Al Matrooshi evidenzia come la descrizione dei diversi passaggi del film sia un’interpretazione personale della fotografa Magnum, in particolare quando la voce fuoricampo parla della «benedizione del riso» confondendo una normalissima azione quotidiana come quella di sciacquare il riso prima della cottura con un rituale inesistente nella tradizione del paese.
È, infine, un documentario di un reality show, o meglio un falso documentario, l’opera video Um Al Naar (2019) realizzata da Farah Al Qasimi. L’espediente narrativo permette all’artista di dar vita ad una commedia noir che analizza con sottile ironia la vita e le avventure di Um Al Naar («Madre del Fuoco»), un «jinn» («genio» o spirito soprannaturale) avvolto in un lenzuolo a fiori e con le toppe di tessuto viola al posto degli occhi e della bocca che si dimena, cucina, balla, cammina, lamentando però la sua sempre più evidente «invisibilità» con la perdita di potere causata dal rapido cambiamento della società degli Emirati, meno incline a seguire le tradizioni degli avi come quella di credere negli spiriti.
Al Qasimi ribalta ogni certezza, come scrive May Al-Dabbagh: «In questo film tutti i binari sono decostruiti: la voce di Um Al Naar è quella di un uomo; Baba Ali, un jinn esorcista, è di fatto una donna. Molti dei corpi danzanti e rotanti appartengono ad un genere ambiguo. Per tutto il film ci si interroga sui confini tra fatto/finzione, vecchio/nuovo, ingabbiato/libero, sporco/pulito, umano/inumano, piacere/dolore».
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