Evan Parker, il sassofono all’improvviso
L’autore di «Monoceros» Intervista con il musicista inglese che sarà domani a Forlì, ospite del nuovo Auditorium di S. Giacomo. In programma una performance in «solo»
L’autore di «Monoceros» Intervista con il musicista inglese che sarà domani a Forlì, ospite del nuovo Auditorium di S. Giacomo. In programma una performance in «solo»
Due giornate di concerti, il 30 e 31 maggio, organizzati dal comune di Forlì in collaborazione con Area Sismica, associazione da anni attiva nella proposta di musiche non convenzionali: il tutto per inaugurare il nuovo Auditorium di S. Giacomo, prossima tappa di grandi concerti emiliani. Ci saranno tra gli altri, nella due giorni di inaugurazione, il musicista rivelazione della Biennale Musica di Venezia, Francesco Prode e la violoncellista Catherine Jones. Occhi e orecchie puntati tra gli appassionati di avanguardie ed improvvisazione europea per il concerto in esclusiva nazionale di Evan Parker, alle 18 del 31. Il sassofonista soprano inglese, oggi settantunenne, offrirà una delle sue leggendarie performance in «solo», festeggiando altresì la riedizione in cd di una delle sue opere capitali, Monoceros. Lo abbiamo intervistato.
Prima di tutto, ci può raccontare la storia dietro la riedizione in cd di «Monoceros», il suo disco «solo» di 36 anni fa?
Ho la fortuna di essere amico di Martin Davidson della Emanem. Quando lui s’è trasferito in Spagna m’è sembrato difficile, per non dire impossibile, riuscire a tenere la mia etichetta Psi e svilupparla. In pratica veniva a cadere l’ambizione di riuscire a rappresentare anche il lavoro di musicisti geniali che ho avuto il privilegio di conoscere, come Furt, Peter Evans, Adam Linson, Gerd Dudek, Ray Warleigh, e altri. E a questo punto viene nuovamente fuori la possibilità di rieditare il mio intero catalogo di ellepì fuori catalogo con Martin. Monoceros è stato per molti versi un progetto speciale: un progetto analogico per essenza, registrato «disc to disc», e con le copie in vinile stampate direttamente da questi dischi. Era stata fatta una registrazione su nastro per sicurezza, da ascoltare in pre-produzione. Dunque fare una versione digitale da questa registrazione analogica è lontano dal concetto originale, ma la musica è sempre la musica, quella che ha un posto speciale nella storia delle mie registrazioni in solitaria.
Si ricorda la prima volta che è stato coinvolto in un’improvvisazione libera?
La prima volta è stata quando mi hanno chiesto di suonare una sorta di «musica del futuro» per un film di fantascienza. A registrazione avvenuta, ho pensato che immaginare cosa possa essere «musica del futuro» è un bel modo per operare. Infatti attraverso questa musica ho conosciuto John Stevens (in realtà col tramite di Alfreda Benge), e il nostro lavoro assieme ha traghettato lo Spontaneous Music Ensemble da gruppo con temi scritti e improvvisazioni a una seconda fase, inizialmente in duo, di improvvisazione completamente aperta.
Parliamo di musica registrata. C’è oggi il paradosso che più le persone hanno a disposizione musica registrata da Internet, meno tempo sembra ci sia per ascoltare e concentrarsi…
Uso Internet regolarmente, e sono affascinato dalla velocità con cui materiali nuovi o storici diventano disponibili. L’impatto sul business della musica registrata è evidente. Resistono pochi negozi di dischi, ma c’è una nicchia fiorente per il vinile nuovo e usato. Spero di vivere abbastanza da riuscire a vedere il revival del compact disc, che, considerato l’uso universale di master digitali, credo sia il medium migliore per ascoltare musica registrata. Naturalmente hanno la loro parte di ragione anche i più giovani, che pensano in termini di un database remoto, e di streaming. Martin e io siamo della generazione che ama gli «oggetti», e cerchiamo di farne che funzionino sia come buoni oggetti, sia come aggeggi per stipare informazioni.
Una volta poi si ascoltava con attenzione una facciata da venti minuti, e, se se ne aveva voglia, si girava. Adesso si preme un tasto e si scaricano quantità di musica probabilmente non ascoltabili. E, ancor più a fondo, la maggior parte delle persone considera «musica» tre minuti di successi pop. La considera una sconfitta per musicisti come lei, abituati a lavorare su ampie campiture musicali, che hanno bisogno di tempo e spazio?
Mah, non sono mai stato un grande amante del rituale del «gira il disco», della polvere, dei graffi sul vinile, della distorsione, del limitare le frequenze basse, delle puntine speciali. Diciamo che c’è un’ottima sinergia tra il formato cd e la musica aperta che interessa a me.
In questi ultimi anni lei s’è trovato a lavorare con molti ottimi musicisti abili nell’uso dell’elettronica. Tutto ciò ha cambiato il suo approccio alla musica? L’elettronica la avverte come un potenziamento, un nuovo partner sulla scena?
Di fatto uno dei miei primi incontri con esperti di elettronica nell’era digitale è stato con il milanese Walter Prati. È stato interessantissimo osservare come strumenti basati sui computer abbiano avuto una crescita esponenziale negli ultimi vent’anni. Il miglior modo per affrontarli è avere a che fare con musicisti che li padroneggino davvero. Walter, Lawrence Casserley, Joel Ryan, Kaffe Matthews, Adam Linson, Matt Wright e Sam Pluta hanno tutti un suono diverso, e ogni suono presuppone per me una diversa interazione.
Lei ha vissuto il periodo storico in cui musicisti inglesi collaboravano con gli esuli dal Sudafrica razzista dell’apartheid. Ad esempio come ricorda il pianista Chris McGregor, e come lo ricorderebbe a chi è più giovane? Non è possibile considerare Chris senza ricordare anche Dudu Pukwana, Luis Moholo, Mongezi Feza. L’approccio del gruppo Blue Notes è quanto portarono a Londra i Blue Notes, poi in seguito anche in Scandinavia. La storia è ancora in gran parte da studiare. Grazie alla Ogun Records abbiamo tanti materiali originali. Energia ed entusiasmo facevano parte del loro approccio. L’approccio di Chris con l’orchestra era più nella tradizione di Ellington che in quella di Gillespie o George Russell, anche se li conosceva. Quando abbiamo fatto le registrazioni della Dedication Orchestra abbiamo voluto mettere in mostra un potenziale delle loro melodie per grande orchestra che Chris purtroppo non avrebbe mai avuto i mezzi per realizzare. Spero che lui, Dudu e Mongezi, Johnny Diani e Harry Miller siano soddisfatti dei nostri risultati.
Immagini di finire in una macchina del tempo, e che potrà vedere come sarà considerato Evan Parker tra cent’anni. Cosa si aspetta?
Sarà la macchina a fornire il contesto. Probabilmente sbucheranno fuori antropologi e musicologi a cercare di capire che diavolo combinavo. Che poi sono sempre le stesse domande: «Dov’è la melodia?», «Dov’è il ritmo?».
C’è ancora qualcosa da scoprire sull’improvvisazione dopo mezzo secolo di ricerche di musicisti coraggiosi come lei e pochi altri?
Ho l’impressione che tutto sia cresciuto e si sia diffuso così velocemente che ora la gente va a caccia delle origini e degli originali. Fra i quali io stesso, se posso osare di drilo. Per quanto mi riguarda sono molto felice di avere ancora l’opportunità di suonare con musicisti vecchi e giovani.
Che musica ascolta Evan Parker, quando vuole rilassarsi senza cadute d’attenzione? E sotto la doccia, canta?
Stamattina continuavo ad ascoltare il set in tre cd del Quartetto di Coltrane a Stoccolma, 1962. E continuerò a suonarlo. La musica del terzo cd è tra le migliori riprese da concerto che conosca. Ieri ascoltavo Kommungo sanjos da Kim Hae-Sook, note sudcoreane, e una raccolta di grandi successi di Aretha Franklin. Poi mi sono messo a riascoltare i missaggi provvisori della più grande versione dell’ ElectroAcoustic Ensemble dall’Huddersfield Contemporary Music Festival del 2011, sperando di averlo pronto, un giorno. Quarantotto tracce da mixare. La scorsa settimana ho ascoltato la nuova registrazione di Mike Gibbs con Hans Koller, e su YouTube il lavoro «a cappella» straordinario di Jacob Collier. Nei miei ascolti il genere è di gran lunga meno importante della bravura individuale. Ah, e non canto mai sotto la doccia.
Ha percorso tanta strada con la musica. Riesce a immaginarsi in pensione, alle prese col giardinaggio, a guardare film, a passeggiare?
Lo farò quando non mi sentirò più in gradi di garantire uno standard soddisfacente. L’orto ce l’ho, ci farò un salto tra poco. I fagioli stanno venendo su bene, e anche le patate e l’uva spina. L’albicocco finalmente darà frutti. E spero di vedere segnali incoraggianti dai borlotti. Film? di recente ho comprato il dvd con la versione integrale di Kwaidan di Masaki Kobayashi, ma per ora ho visto solo qualche scena. M’era piaciuto parecchio, negli anni Sessanta. Ogni anno mi rivedo One Eyed Jacks,(I due volti della vendetta) l’unico film diretto da Marlon Brando. Mi piacerebbe aver più tempo per i film. Un paio d’anni fa non ce n’era in giro uno su Roma? Credo di averlo perso.
Le piace insegnare?
Non mi sono formato seguendo i canoni tradizionali, e non ne voglio. Ma mi piace rispondere alle domande. Come credo abbia capito da questa intervista.
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