European Painters fra correttezza e storia dell’arte
Novità museali a New York, Metropolitan Museum e The Frick Collection Al Met le nuove sale europee dai fondi oro all’Ottocento, all’insegna dell’anticolonialismo nelle intenzioni, si rivelano poi articolate, più o meno, tradizionalmente: vorrei ma non posso? Alla Frick, ancora ospitata nell’edificio di Breuer, un prezioso «vis-à-vis» Bellini-Giorgione
Novità museali a New York, Metropolitan Museum e The Frick Collection Al Met le nuove sale europee dai fondi oro all’Ottocento, all’insegna dell’anticolonialismo nelle intenzioni, si rivelano poi articolate, più o meno, tradizionalmente: vorrei ma non posso? Alla Frick, ancora ospitata nell’edificio di Breuer, un prezioso «vis-à-vis» Bellini-Giorgione
New York guarda all’inverno 2023-’24 con alcune grandi novità in campo espositivo: il riallestimento delle sale degli European Paintings del Metropolitan Museum of Art e il ricongiungimento, alla Frick Collection, di due opere capitali del Rinascimento veneziano, un tempo collocate nella dimora di Taddeo Contarini.
Il processo di rinnovo delle sale che accolgono la pittura europea del MET, il più grande museo di New York, è iniziato nel 2018 con lo Skylight project, ovvero l’ammodernamento del sistema di lucernai che consentono alla luce solare di filtrare e inondare le sale, permettendo oggi un’illuminazione calibrata e una visione quanto più naturale dei dipinti esposti negli ambienti del nuovo percorso.
Questo si autoproclama fin dalla prima sala come qualcosa di radicalmente diverso dal passato, perché indirizzato a mettere in discussione il concetto classico di Europa e a non leggere più i secoli di storia del nostro continente seguendo le vicende delle dinastie politiche e all’interno delle maglie della religione cristiana. Quella che si dichiara di voler raccontare è una storia diversa, fatta di scambi con gli altri continenti, di incroci di popoli e religioni, di oppressione e di minoranze. Ma quanto questa operazione sovverta davvero i canoni della museologia tradizionale è tutto da discutere.
I maestosi Tiepolo di Ca’ Dolfin si mostrano in cima all’iconica scalinata del museo preceduti da una scultura romana e da una divinità pakistana, e diventano l’emblema del brutale passato coloniale europeo che l’allestimento promette di rammentarci lungo tutto il percorso. Ma così, in realtà, non è.
Da qui parte un cammino espositivo che procede secondo canoni grossomodo tradizionali: dai fondi oro all’Ottocento, con sale principalmente organizzate per aree geografiche e blocchi cronologici coerenti, e il compito di sottolineare le dinamiche dichiarate all’inizio, è relegato quasi interamente ai testi di sala e ad alcune, rare, didascalie. Ma sarà davvero utile ricordare, descrivendo due zuccheriere francesi del Settecento, che gli europei potevano godere dello zucchero solo grazie agli schiavi?
Nel percorso ci sono stanze davvero molto riuscite, come il passaggio rinascimentale dalle Fiandre a Venezia scandito dall’Ecce Homo di Antonello da Messina, o il racconto della dimora fiorentina del Quattrocento, dove la devozione privata è messa in scena mediante dipinti, sculture e maioliche. O ancora le magnifiche infilate di ritratti e paesaggi del Seicento nordico, dove Rembrandt spicca come vertice assoluto, non lontani dalla sala che prende il titolo di Behind Closed Doors e vede esposti magici interni olandesi dipinti da Vermeer.
Nel dialogo tra pittura e scultura policroma funzionano anche le grandi rappresentazioni sacre spagnole, o le stanze immersive dedicate al Settecento veneziano (dove Tiepolo, come sottolinea il testo di sala, diventa testimonianza della Multiracial Europe) o ancora le immagini che fermano sulle tele i viaggi del Grand Tour. È ben riuscita anche la sala della Spanish America Art nella quale i grandi dipinti sacri raccontano il nodo più cruciale della storia della scoperta e conquista del nuovo continente, quando le rappresentazioni della tradizione religiosa europea si mescolano con i colori e i toni locali.
Funzionano meno ambienti quali la sala con Lotto e Tiziano, che vengono intervallati da bronzetti che non reggono la qualità dei dipinti, o il grande spazio carminio dedicato al Barocco (To Destroy Painting), dove la necessità di dare spazio alle donne porta una Sacra Famiglia di Orsola Caccia appena sopra un Caravaggio, quando invece la pittrice è sicuramente più apprezzabile nell’adiacente spazio dedicato alle nature morte.
È in una sala quasi interamente dedicata a El Greco che ci si imbatte in almeno tre tele di Picasso. Sono queste, assieme a pezzi di Dalì e di Bacon, alcune presenze novecentesche all’interno dell’esposizione degli old masters. Gli accostamenti funzionano, ma hanno davvero un valore aggiunto?
Altre sale, invece, risultano faticose per le ragioni più disparate. Sacred Images and the Viewer propone un palinsesto di santi di grandi dimensioni come se allo scoccare del Cinquecento questo formato fosse divenuto una tendenza in area centro italiana; oppure il tentativo di risolvere il nodo delle Origins of Landscape tutto solo in chiave nord-europea. Tuttavia, la sala meno riuscita è certamente quella che ambisce a raccontare la cultura artistica delle corti italiane dove si alternano ritratti, frammenti di polittici e tele da studiolo che non sono in alcun modo in grado di ricostruire l’atmosfera lussuosa e raffinata delle capitali degli stati territoriali italiani. Qualche sontuoso oggetto d’arte, ben presente nelle collezioni del MET, avrebbe migliorato la narrazione.
Proprio le arti decorative sono invece le protagoniste della nuova, riuscitissima, Wunderkammer dedicata al Cinquecento nordico collocata al pianterreno. Attorniate da arazzi, decine di oggetti realizzati in differenti materiali preziosi sono esposti in una selva di vetrine con esaustive didascalie che parlano di usi, funzioni e provenienze.
L’impressione che si ha dopo aver attraversato l’infilata delle quaranta nuove sale degli European Paintings è che le dichiarazioni iniziali circa le nuove tendenze della museologia americana non riescano a essere completamente sostenute dalle opere che compongono la raccolta e che riportano verso una successione più tradizionale.
Completamente diversa è l’operazione compiuta alla Frick Collection. Ancora ospitata nell’edificio brutalista di Marcel Breuer sulla Madison, la collezione del magnate dell’acciaio a breve tornerà nella sede affacciata su Central Park, ma si è concessa prima del trasloco un prestito importante, quello dei Tre filosofi di Giorgione, arrivati dal Kunsthistorishes Museum di Vienna. Il dipinto è esposto proprio di fronte al San Francesco nel deserto di Giovanni Bellini, proprietà Frick, in una metafisica stanza di grigio cemento interrotto solo da una finestra trapezoidale, che fa entrare la luce e sfonda il cubo concedendo un respiro.
La luce è uno degli elementi che lega i due dipinti perché in entrambi essa è l’elemento che scatena l’evento: è l’inondazione di luce che proviene da sinistra che porta le stimmate al santo di Bellini, ma è anche il chiarore all’interno della grotta (oggi in parte perduto perché la tela è resecata) che muove il viaggio di quelli che originariamente erano i Magi, e che poi divennero filosofi, nel dipinto di Giorgione.
Ma c’è anche un dialogo di rocce. Quando Marcantonio Michiel nel 1525 descriveva la tela giorgionesca, era anche la presenza lapidea messa in primissimo piano, quel ‘saxo finto cusì mirabilmente’ sul quale siedono i filosofi ad aver attirato la sua attenzione. In Bellini la roccia è la vera protagonista della tavola, è palcoscenico del santo, è strapiombo sul ruscello, è dolce declivio, è ripida rampa, è anche trabeazione e grotta, dimora di meditazione e lettura.
I due dipinti si trovavano nel secondo decennio del Cinquecento nel palazzo del ricco mercante Taddeo Contarini, dove li descrive Michiel assieme ad altri pezzi della collezione. L’approfondito studio di Xavier F. Salomon (pubblicato in Bellini and Giorgione. In the House of Taddeo Contarini, Frick Collection & Giles, $ 34,95) si concentra proprio sulla collocazione originaria delle opere e ricostruisce, con piante e documenti, le sorti della residenza di Contarini, riconoscendola in un edificio ancora esistente nel sestiere di Cannaregio, adiacente a Palazzo Vendramin, casa del cognato di Contarini, e casa della Tempesta di Giorgione.
La mostra è un prezioso focus che riunisce per la prima volta due opere di una stessa raccolta e ne mette in evidenza le assonanze, ma anche le profonde differenze, perché se Bellini parla ancora la lingua di un Quattrocento smaltato e concentrato sul dettaglio, Giorgione rappresenta ormai l’apertura verso la Maniera Moderna.
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