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Eurobond e mutualizzazione del debito per cambiare la rotta

Eurobond e mutualizzazione del debito per cambiare la rotta – LaPresse

Coronavirus/Economia Per la difficoltà di tornare a un modello fondato sulle esportazioni, è necessario inventarsene uno nuovo basato sulla domanda interna, sul welfare e sulla riconversione ecologica

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 18 marzo 2020

Mentre il paese si mobilita per sconfiggere l’epidemia da coronavirus in uno sforzo collettivo trainato dalla riscoperta del valore dei sistemi sanitari pubblici e del loro eroico personale medico e infermieristico, bisogna già pensare al dopo, a come far ripartire l’economia e la società terminata la forzata immobilità di queste settimane.

La priorità sono gli investimenti pubblici e la creazione diretta di lavoro, in infrastrutture, salute, scuola, Università, ricerca, innovazione sociale, anche ammaestrati dal fatto che i bassi tassi di interesse protratti per anni a livello mondiale e le permissive politiche monetarie “non convenzionali” – pur necessarie, tanto più oggi – si sono dimostrate insufficienti a canalizzare il risparmio verso gli investimenti e hanno avuto l’effetto controproducente di creare un’enorme massa di liquidità utilizzata prevalentemente per guadagni privati e per la speculazione.

È essenziale uno straordinario Piano europeo per lo sviluppo, finanziato dagli eurobond e da forme di mutualizzazione del debito, un intervento centralizzato a cui forzare l’Europa, non limitato a lasciare ai singoli Stati la flessibilità necessaria perché ciascuno faccia da solo.

Infatti, da un lato c’è da dare un sostegno immediato a quanti – famiglie e imprese – si trovano in difficoltà, dall’altro c’è da prendere atto che, anche se lo volessimo, non potremmo tranquillamente tornare al tradizionale modello esportativo e che è necessario inventarsi un modello completamente nuovo basato sulla domanda interna e sui bisogni sociali insoddisfatti, come è richiesto anche dalle indifferibili esigenze della transizione ecologica.

Investimenti pubblici e creazione diretta di lavoro si impongono come priorità anche da un altro, decisivo angolo visuale, quello dello sconquasso finanziario di cui percepiamo le avvisaglie nelle turbolenze dei mercati in generale e di quelli azionari in particolare, in atto da tempo – basterà ricordare che alla fine del 2019 all’euforia e ai proventi anomali delle borse faceva da pendant una decelerazione della crescita che stava già coinvolgendo il 90% dei paesi del mondo –, ma accentuate dalle incertezze legate alla vicenda del coronavirus.

Dopo la crisi del 2007/2008 il debito globale, invece di diminuire, è aumentato vertiginosamente, soprattutto nella sua componente privata legata alla variabile azionaria. La maggior parte di tale debito è stata creata dal settore corporate non bancario che ora – con la distruzione delle catene di offerta e del valore provocata dal coronavirus – può trovarsi in difficoltà a pagarne il servizio relativo, il che può generare la stranissima situazione di una paradossale coesistenza di bassi tassi di interesse e di credit crunch.

Ma quel che è peggio è che tale maggior debito è stato generato mediante metodi che ne hanno vertiginosamente accresciuta la rischiosità, poiché la sua emissione è prevalentemente avvenuta attraverso corporate bond con rating speculativo e con minore protezione contrattuale, di cui hanno fatto incetta l’universo del risparmio gestito e i fondi di investimento, meno vincolati dalle regole prudenziali a cui sono state sottoposte le banche.

Si tratta di rischi che il sistema finanziario globale viene incubando da decenni – dalla crisi della metà degli anni ’70 del Novecento, alla successiva crisi latinoamericana, fino ai più recenti sconvolgimenti della dot-com dei primi 2000 e dei subprime del 2007 – rischi sistematicamente mis-priced (erroneamente prezzati), dice John Plender sul Financial Times, con il risultato di aver dato vita a uno stock di titoli che oggi presenta bassa qualità di credito, maturità molto lunghe, scarsa protezione contrattuale.

Le cose acquistano una luce ancor più preoccupante se consideriamo che gran parte di questo debito è andata a finanziare quelle operazioni di mergers and acquisitions e stock buybacks con cui i top managers alimentano i loro guadagni. Ma il dispositivo degli stock buybacks – con cui le imprese vendono e ricomprano freneticamente le loro azioni per farne salire il valore, così da remunerare al rialzo i propri manager – non diversamente dagli incentivi non salariali ai manager, come la remunerazione attraverso l’erogazione di stock options, sono proprio quelli che alimentano lo shortermismo e deprimono la spinta ad investire in capacità produttiva reale e in innovazione.

Tutto ciò ci dice che non è più rinviabile il compito di affrontare in modo non retorico le problematiche della “democrazia economica”, di nuovi rapporti capitale/lavoro. E ci dice che un intervento pubblico “innovatore” è oggi urgente sia dal lato degli investimenti e della creazione diretta di lavoro, sia dal lato di una fortissima nuova regolazione finanziaria.

È arrivato il momento di fare cose draconiane, del tipo “vietare gli stock buybacks”, secondo la proposta di Lazonick, “rivedere radicalmente la struttura degli incentivi ai manager” (tra l’altro non consentendo la vendita a breve delle stock options), abolire le misure permissive (come permettere di contabilizzare nei bilanci annuali dei fondi utili futuri altamente incerti) adottate anche da soggetti quali la Banca dei Regolamenti Internazionali.

La storia ci dice che l’unico periodo in cui non abbiamo conosciuto crisi finanziarie gravi è stato quello tra gli anni ’30 e gli anni ’70 del Novecento, quando al crack del 1929 la risposta regolatrice, in primo luogo di Roosevelt, fu nettissima e per questo risolutiva. Oggi scontiamo gli esiti della ostilità allo Stato, la deregolamentazione, le privatizzazioni predicate dalla fine degli anni ‘70 dal neoliberismo.

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