In Dieci anni dopo (1977) di C.S. Lewis, Menelao, dopo aver conquistato Troia, si trova davanti un’Elena con il volto grasso, i capelli grigi, le rughe sotto gli occhi: così diversa da quella che, nell’Andromaca di Euripide, riusciva immediatamente a riconquistarlo. Scrive Lewis: «due nazioni sulle spine per dieci inverni, tutto per una donna che non avrebbe comprato al mercato come domestica o balia … Tutto per nulla». Questa vertigine del nulla, del vuoto, è il tema centrale dell’Elena di Euripide. Lo sa bene Davide Susanetti, che non a caso chiudeva proprio con Lewis il suo capitolo sull’Elena, in un bel libro di vari anni fa dedicato a Euripide (Fra tragedia, mito e filosofia, Carocci editore). Ora Susanetti esce con una nuova, coinvolgente introduzione e una traduzione, fluida ed efficace, dell’Elena (Feltrinelli «Universale Economica», pp. 224, euro 9,00), in cui sceglie, a ragione, di conservare in più punti il testo tramandato dai codici e di adottare, in alcune sezioni, le felici congetture – sfuggite anche agli editori più recenti – del mai abbastanza compianto Carlo Diano (si veda, ad esempio, la brillantissima proposta per la chiusa del secondo stasimo, ai vv. 1366-7).

Nell’Elena, rappresentata ad Atene nel 412 a.C., Euripide racconta che la vera Elena non è mai andata a Troia, ma è stata condotta per volere di Zeus in Egitto e protetta dal re, Proteo. Al suo posto, a Troia è stato inviato un eidolon, un fantasma. Proteo, però, è morto, e suo figlio Teoclimeno, come tutti gli uomini innamoratosi di Elena, vuole farne la sua sposa. Naufrago in Egitto dopo la vittoria a Troia, Menelao incontra la vera Elena, che, a differenza di quella di Lewis, è ancora – e sempre – la donna di un tempo. Menelao non si lascia incantare, perché non può credere che sia sua moglie, nonostante Elena tenti in ogni modo di persuaderlo («Gli dèi ti hanno creato una moglie fatta di etere» … «E mi vuoi lasciare per tenerti una donna d’aria?»). A un certo, punto, però, entra uno dei suoi servi, che ha assistito a un prodigio: l’eidolon è asceso al cielo, discolpando la ‘vera’ Elena.

Prima però di raccontare la dipartita del fantasma, che convincerà finalmente lo sposo dell’identità della sua sposa, il servo rivolto a Menelao esclama: «Hai sopportato infinite sofferenze per niente!», una battuta che è allo stesso tempo tragica e comica. La risposta di Menelao («Sono cose ormai passate. Vieni al punto», letteralmente: «lamenti fatti ormai antichi; cos’hai di nuovo da annunciarmi?») è sconcertante, perché sembra implicare che le sofferenze patite per Troia, che si rivelano a maggior ragione vane perché sono state vissute per un fantasma, sarebbero state inutili anche se avesse ritrovato l’Elena vera.

La vanità delle sofferenze, e in generale la vanitas vanitatum che fisserà in maniera indimenticabile il Qoelet, è uno dei temi principali sottesi all’intera tragedia: come conferma Menelao, apparente caricatura dell’eroe tragico coperto di stracci, ma in verità erede dello splendido, malinconico sovrano di Sparta dell’Odissea, che non riusciva a essere felice, nonostante la vittoria della guerra e la riconquista di Elena. Il Menelao di Euripide, dopo aver riconosciuto Elena, ripeterà: «Gli dèi ci hanno ingannato, abbiamo conquistato solo un’immagine fatta con una nuvola, e tanti sono morti per questo». Questa vanità delle sofferenze sarà riconosciuta anche da Teoclimeno, il quale, davanti allo stesso Menelao «travestito» da naufrago messaggero della sua morte per poter ottenere da lui tutto il necessario per celebrare il suo falso funerale e fuggire, in realtà, dall’Egitto, esclama: «Povero Priamo, povera Troia, morti per niente!». L’avverbio máten («invano») ricorre nella tragedia: vana è stata la guerra di Troia e le sofferenze patite per un fantasma; vano il desiderio di Teoclimeno per Elena; vano il vagabondaggio di Menelao, già predestinato alla vita eterna.

Ogni tentativo, ogni sforzo degli esseri umani per conoscere la verità, o perlomeno ricercare un significato, sembra suggerire Euripide, è destinato allo scacco. Un po’ come il Faulkner delle Palme Selvagge, che scriverà di preferire il dolore al nulla, anche Euripide, non a caso «il più tragico dei poeti» secondo Aristotele, dà l’impressione di ricercare un senso che contrasti la vanità: l’ironia, la brillantezza della trama, l’apparente leggerezza dell’ambientazione esotica si alternano a versi come quelli del primo, meraviglioso stasimo («Cos’è dio? Che cosa non lo è? E che vi è in mezzo?»), o quelli del già citato servo di Menelao («com’è impenetrabile il divino! Cambia sempre forma e colore!»), che mettono prepotentemente al centro il problema della natura degli dèi e del loro ruolo negli eventi della vita degli uomini.

Ma dov’è, sempre che ci sia, il senso di ogni cosa? Forse nella figlia di Proteo, la profetessa Teonoe, letteralmente «mente divina», che sembra fondere la dottrina di Anassagora con riferimenti alla visione post mortem della religione egizia, a cominciare dal Libro dei Morti, «in cui il defunto che avesse affrontato vittoriosamente il viaggio notturno nell’oltretomba, dando prova dinanzi al tribunale infero di aver sempre osservato le norme della giustizia, poteva di nuovo uscire alla luce»? Giustizia, ordine e verità, sono, d’altronde, i valori che improntano i personaggi di Proteo e della stessa Teonoe: ma bastano davvero? O è forse nel secondo stasimo, il misterioso inno alla Madre degli dèi, divinità di origine asiatica il cui culto, per i tratti della possessione e del carattere orgiastico della musica presente nei riti, era associato in Grecia a quello di Dioniso? L’inno alla Madre, soggetta a fenomeni di sincretismo e identificata con Demetra, è stato spesso considerato estraneo alla tragedia, ma è l’archetipo dell’anodos, della risalita, e potrebbe rievocare proprio la storia di Elena, «rapita e condotta altrove, fino a quando non le è concesso di risalire da quegli Inferi che sono l’Egitto e tornare in Grecia», come avverrà alla fine della tragedia. Ma, proprio come nei misteri eleusini, prima di ritrovare la luce si deve «soggiornare nell’oscurità dell’angoscia e dello smarrimento».

Euripide, però, non rinuncia a gettare ombre, dubbi e oscure allusioni, e, dopo aver descritto «la voce scura dei cimbali», le «foglie d’edera intrecciate», i «sacri tirsi», i «capelli ondeggianti e scossi in onore di Dioniso» e «le notti di veglia consacrate alla Madre», conclude lo stasimo dell’apparente liberazione con versi ambigui, riferendosi a una possibile colpa, a un’inadempienza rituale di Elena («nella tua casa hai celebrato riti proibiti dalla legge divina») e aggiungendo: «dovresti saperlo, tu che hai passato ogni limite, e ti vantavi solo della tua bellezza»: un possibile riferimento, suggerisce Susanetti, ad Alcibiade, che per molte ragioni, in primis la sua straordinaria bellezza che stordiva chiunque incontrasse («della sua bellezza non è necessario parlare … lo accompagnò sempre fiorente in ogni età della sua vita», ricorda Plutarco), era stato accostato a Elena. Alcibiade veniva paragonato apertamente a Elena dagli Ateniesi: come Elena aveva abbandonato Sparta e tradito Menelao, così Alcibiade non aveva avuto remore a passare dalla parte degli Spartani dopo la condanna per la scandalosa, presunta mutilazione delle sacre Erme e la profanazione proprio dei misteri di Eleusi. Al pari di Elena, Alcibiade ispirava sentimenti contrastanti: «il popolo lo desidera, lo odia, e lo vuole avere», scrive Aristofane nelle Rane: proprio come «la più meravigliosa, la più pericolosa della terra», come Hofmannsthal definirà Elena, sempre temuta e desiderata, odiata e vagheggiata; sempre carnefice, perché la sua bellezza ha provocato la guerra di Troia, ma anche vittima, perché non ha scelto di essere bella. Che sia volontaria e consapevole, o involontaria e forse inconsapevole, come nella misteriosa inadempienza rituale, la colpa di Elena – sembra suggerire Euripide – resta in fondo sempre la sua immortale, insostenibile bellezza.