Elegia dei diseredati, suicidari; canto e celebrazione degli sconfitti, della catastrofe, la luce catastrofica che mentre abbaglia dice – per affievolimenti e riflessi occidui – l’estinzione delle cose, Eureka di Lisandro Alonso è discorso politico immerso nella luce della storia (entro cui si avvicendano ineluttabilmente gli eventi), che trascende a discorso ontologico e teorico, in balia della luce del dispositivo, della proiezione. La natura è sempre più – anzi, da sempre – cosa simbolica, linguistica quindi cinematografica: ecco il «reale» in cui si muove sin da principio il cinema di Alonso, anche quando magari si poteva constatare il presupposto mimetico di un film come La Libertad. Ma la solidità apparente del segno, già allora suggeriva, mostrava in trasparenza, cioè nella carne spettrale del «cristallo», qualcosa che era trattenuto altrove: tutta una virtualità, una materia immaginale, invisibile, in quanto parte integrante del simbolo.
Poi Fantasma aveva chiarito definitivamente la direzione in cui quel cinema era destinato ad andare: il lento e inesorabile spostamento del fuoco (un movimento di macchina in totale profondità di campo) verso quel cristallo, quella sostanza traslucida presente in ogni immagine cinematografica: la contemplazione raccolta, assorta di quello specchio, che era la superficie tralucente, la carnea (eppure così fantasmatica) realtà in cui pervenivano e si permutavano le forme di Jauja e ora si ritrovano in Eureka.

COLLOCATO inspiegabilmente fuori concorso a Cannes, insieme a un’altra primizia qual’è Serrar los ojos di Erice, Eureka arriva ora a Milano, l’11 novembre, come avvicinamento al Filmmakers Festival e in collaborazione con la Fondazione Prada: occasione per assistere una volta di più al dispiegarsi di una delle esperienze cinematografiche più straordinarie del cinema contemporaneo –accanto a quelle di Albert Serra e di Weerasethakul, per restare ai registi nati negli anni Settanta – una visione unica, anzi duale se la si considera in rapporto a Jauja, quasi fosse la versione specchiata del film che Alonso presentò a Cannes nel 2014. E in effetti lo è, nel momento in cui mostra, in un altro spazio-tempo, in un’altra declinazione di forme, uno degli esiti possibili a cui giunge la ricerca della figlia da parte di Gunnar in Jauja, il quale approda ora a un western in bianco e nero (nella stessa cornice di 4:3) e affronta il rapitore Randall, adagiato, placidamente umettato in una tinozza piena d’acqua, proprio come Pittalonga sguazzava e si masturbava al pensiero di Inge, immerso in una piscina naturale all’inizio di Jauja. Gunnar, Inge, Pittalonga si specchiano nella superficie vitrea, opalescente del cinema, ritrovandosi (incarnandosi) nei sembianti di Murphy (lo stesso Mortensen), di Randall, di Molly (interpretata da Vibjorg Malling che in Jauja era appunto Ingeborg).La natura è sempre più – anzi, da sempre – cosa simbolica, linguistica quindi cinematografica

COSÌ COME gli sfondi – il mare, la costa, l’altura rocciosa – trascolorano in quelli visibili nel western, nel post-western ruvido, scarno all’inizio di Eureka, saturo di un’umanità residuale, accasciata a terra in chissà quale deliquio o in quanto carname lasciato lì a putrefare. E, secondo la concentricità dell’immagine specchiata dentro l’immagine specchiata, all’infinito, il western a sua volta diviene lo specchio in cui si riflette la parte centrale del film, popolata di personaggi sofferenti, come incastrati, intrappolati nella riserva indiana del Sud Dakota, che sembrano quasi macerare sotto l’azione dello spazio: sudici, storditi, sguaiati, suicidi, gli ultimi superstiti dei nativi americani. Eureka è il film più politico di Lisandro Alonso (coincidendo tra l’altro con il discorso imbastito dall’ultimo Scorsese), ancorandosi anche a un aspetto genealogico, autobiografico affidato agli indigeni sudamericani (il Brasile della terza parte del film) che però trascendono la storia, la loro collocazione in un momento storico, per diventare il simbolo di un’umanità debole, sconfitta per quanto pura, e, ancora più in là – nella ricerca archeologica, archetipica del senso –, di ogni escrescenza di vita (anche in forma di particelle vagolanti, smanianti, fibrille che fioriscono, sfioriscono in una rapsodia di luce, nel transito cadenzato della fotosintesi) che rutila in questo eterno intervallo – negata ogni fondazione, ogni metafisica –, in questo infinito intermezzo che è l’esistenza ed è il simbolo (il cinema) che la esprime.

ECCO ALLORA, esauritasi la storia, il passaggio alla verità dell’ermeneutica, del simbolo, che nella misura in cui s’esprime pienamente, affermando se stesso, la propria congerie di segni, rimanda, per propria natura, all’altro da sé, il virtuale custodito e irretito altrove. Così la trama di dissolvenze incrociate presente nel terzo atto di questo «poema debole» mostra l’imperitura permutazione, il compenetrarsi (l’infinito sfibrarsi, sfinirsi) delle cose e degli esseri racchiusi nei contorni di icone transeunti, volatili, cicognesche, che vanno alla ricerca di sé nel tempo sospeso, dentro lo specchio delle immagini, in cui l’essere non può che essere il riflesso di ciò che è stato e di ciò che necessariamente sarà, dentro la realtà infinita dell’intermezzo, della fluttuazione, di molecole.