Atopos è termine greco che indica un essere «fuori di posto». Ad esempio, un artista è spesso «fuori di posto» in rapporto alla propria comunità di origine e quindi ha necessità di cercare un altrove. Eugenio Tibaldi, nato a Bra, nel Piemonte profondo, questo «altrove» lo ha trovato a Napoli, dove oggi vive e lavora. Ma il nodo di quella relazione mancata resta, come un nodo esistenziale. Invitato da Andrea Mastrovito, un altro artista a cui lo accomuna questa nascita in un contesto di provincia (per Mastrovito è Bergamo), Tibaldi ha colto l’occasione per affrontare la questione alla radice.

IL CONTESTO è quello di Drawing Hall, uno spazio molto originale ricavato dall’unione degli studi di Mastrovito e di un suo amico videomaker, tra i capannoni industriali di Grassobio; due volte l’anno qui vengono proposte mostre monografiche e all’artista invitato viene chiesto di mettere a punto un progetto che abbia al centro il disegno. Tibaldi il lavoro lo aveva già in casa, in quanto da tempo aveva iniziato con sistematicità quasi quotidiana a realizzare delle carte tutte delle stesse dimensioni di 21×21 cm, disegnando ad acquerello degli uccelli. Ogni lavoro veniva poi corredato da frasi tracciate leggermente a matita, spezzoni di voci intercettate o di pensieri senza necessariamente un nesso diretto con l’immagine. L’idea dunque è stata quella di far interagire questo lavoro molto privato con qualcosa che rappresentasse emblematicamente il contesto della comunità «rifiutata».
Tibaldi ha dunque chiesto ad un centinaio di persone di affidargli una stampa o un quadro di poco valore che era stato relegato in soffitta o in cantina. Lui stesso è andato a ritirarne alcune, dialogando con i proprietari per indagare sulle ragioni di questi abbandoni; la più parte gli sono arrivati direttamente in studio. A questo punto compiuto l’innesto, incollando ciascuna delle carte su un quadro «adottivo», ma completandole in modo da mimetizzare, in modo a volte spiazzante, quegli innesti.
Ne nasce un’ibridazione, grazie alla quale, come scrive la curatrice Lucrezia Longobardi, «il grande stormo che si raccoglie sulle pareti diviene una panoramica intellegibile sul concetto di relazione». L’allestimento in forma di fittissima quadreria domestica, con muri tappezzati da carta da parati e lampadario da salotto casalingo al centro dello spazio, accentua questo desiderio di riappacificazione.

A UNO SGUARDO RAVVICINATO si scoprono però dei corto circuiti: i processi di osmosi tra le immagini non sono affatto processi di appiattimento. Le diversità continuano ad agire in modo anche provocatorio: ad esempio un uccellino può posarsi su un fallo, innestandosi su un’immagine devota di Maria. L’«atopia» a cui fa riferimento il titolo permane ma invece di generare una distanza o di essere percepita dall’artista come una colpa, diventa fattore di attivazione per immaginare una dimensione di comunità diversa, capace di rimettere in circolo anche i fuggitivi: «arte come cura del mondo», scrive Longobardi.
Gli ibridi di Tibaldi agiscono grazie a una riaccesa simpatia tra l’artista e la comunità. Simpatia reciproca, visto che la comunità chiamata in causa non ha avuto nessun problema a stare al gioco.