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Eugenio Scalfari fu il primo a rompere il Muro in Italia

Eugenio Scalfari fu il primo a rompere il Muro in ItaliaLa nascita di Repubblica nel 1976 – Ansa

Eugenio Scalfari È morto il 14 luglio, l’anniversario della Rivoluzione francese. Una data che per lui, condottiero del laicismo, aveva un significato fondamentale

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 15 luglio 2022
Eugenio Scalfari in un ritratto di Roby Schirer

Eugenio Scalfari fu il primo ad attraversare la cortina di ferro che, in quegli anni di guerra fredda, separavano non solo gli stati occidentali da quelli orientali, ma anche le loro rispettive società civili. In particolare quella italiana dove negli anni ’50, in particolare dopo il 18 aprile del 1948, non si sviluppò solo un duro scontro politico, ma crebbe una rigida e invalicabile distanza. I comunisti si vedevano fra loro, gli altri restavano chiusi nel mondo ufficiale. (Il nostro, intendiamoci, era povero, ma ricco di intellettuali che allora erano quasi tutti comunisti).

Quando nel 1955 esce l’Espresso, inventato da Scalfari, il Muro si incrina: per via della innata curiosità intellettuale del suo direttore, che era però anche una scelta politica. Importantissima. Fu così che a metà di quell’antico decennio cominciammo a frequentarci. Non solo a interloquire politicamente, proprio anche a conoscerci, a cenare assieme, persino ad andare a ballare in un neo-pub dietro via Ripetta dove in molti finimmo per passarci la sera.

Togliatti, che era anche lui curioso, volle conoscere «questo Scalfari»; e chiese a me e al mio ex marito Alfredo Reichlin di dagliene un’occasione. Fu così che l’incontro fra due esponenti primari dei due mondi avvenne a cena da noi: Togliatti con Nilde, Eugenio con Simonetta.

Cambiammo tutti, nel costume come nella cultura, cambiò la società italiana e con questa la politica italiana che in quegli anni perse molte delle sue rigidità, scoprì terreni comuni di lotta contro una destra anche golpista, grazie a una sinistra meno arroccata, un centrismo laico che divenne meno anticomunista. L’Espresso, e il suo direttore, si può dire che hanno segnato un passaggio d’epoca importante della storia italiana.

Diventammo persino amici. Non posso dimenticarmi che nel ’62, quando finii in galera per una manifestazione degli edili, e subii anche le sgridate del Pci che mi rimproverò di esser andata a ficcare il naso in una manifestazione sindacale così esponendo il Partito all’accusa di volerne ledere l’autonomia, Eugenio venne a testimoniare al processo in mio favore sostenendo che ero lì non per conto del Pci ma per un servizio giornalistico per l’Espresso. (Una bugia che mi aiutò molto).

Poi, dopo 20 anni di ormai consolidato rapporto, arrivò Repubblica, il capolavoro di Scalfari. All’uscita del nuovo quotidiano si tenne una sorta di battesimo, mi pare all’Eliseo, e io vi portai il saluto del Manifesto, ormai vecchio di ben 5 anni. Dissi, in quell’occasione, una sciocchezza. Feci infatti gli auguri alla nuova impresa che sentivo parente, ma espressi le mie perplessità: siete un giornale, dissi, non fate riferimento ad alcun movimento o partito – e ve ne vantate pure come si trattasse di un segno di indipendenza. Ma come si fa a fare un quotidiano senza una esplicita linea politica che lo ispiri? Fra breve, preannunciai, vi troverete nei pasticci.

Non avevo capito, nella mia stupida ingenuità, che anche un giornale può diventare un partito: Repubblica è stato per decenni il più importante partito politico italiano, l’espressione più significativa di un pensiero che non saprei nominare (centro sinistra? No, non è stato né craxiano nè democristiano. Repubblicano? Tutti sanno cosa è Repubblica, nessuno cosa è il Pri; riformista? La parola si presta a troppe interpretazioni per diventare un’etichetta credibile). È un fatto che – non a caso – negli ultimi tempi la sua linea è cambiata e per farlo non c’è voluta nessuna scissione di partiti!

Eugenio non è stato solo un politico acuto, ma un grande giornalista. È capitato anche a me di lavorare per Repubblica, per qualche servizio ed editoriale, all’inizio degli anni ’80. E se debbo dire quale è la cosa che più ho apprezzato nel suo modo di dirigere sono le sue quotidiane riunioni di redazione, cui invitava anche i collaboratori sporadici e non solo i redattori. Non solo. Nel corso della riunione così allargata prendeva il telefono e chiamava un sacco di gente per fare due chiacchiere: voleva il parere di tutti, per avere un rapporto stretto con il mondo reale, e a questo obiettivo sacrificava non poco del suo tempo. Un grande insegnamento.

Eugenio Scalfari è morto il 14 luglio, l’anniversario della Rivoluzione francese. Una data che per lui, condottiero del laicismo e ammiratore appassionato delle rivoluzioni dedicate alla libertà, aveva un significato fondamentale. Tanto è vero che per anni, sulla terrazza della sua casa a via Nomentana, invitava ogni anno, il 14, tutti gli amici a una grande festa. Era un figlio della migliore tradizione Europea, ben lontana dalla triste venerazione per quelli che oggi vengono spacciati per valori occidentali. Per il suo 70mo compleanno, ricordo, gli regalai una copia del Corano. «Perchè?» – mi chiese stupito del dono. Glielo avevo regalato perché una volta tanto prendesse atto che anche fuori dall’Occidente c’erano culture e mondi che non si potevano ignorare.

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