Eudora Welty, metonimia geografica di una terra di schiavi, cotone e belle canzoni
America XIX secolo Una fantasmagoria di spettri metaforici e reali rende conto dell’animo gotico, inseparabile dalla letteratura del Sud: la saga dei Fairchild in «Nozze sul delta», appena ritradotto da minimum fax
America XIX secolo Una fantasmagoria di spettri metaforici e reali rende conto dell’animo gotico, inseparabile dalla letteratura del Sud: la saga dei Fairchild in «Nozze sul delta», appena ritradotto da minimum fax
Alludendo all’importanza cruciale di quest’area nella cultura del sud americano, James C. Cobb, emerito storico statunitense, ha definito il delta del Mississippi «il luogo più meridionale del mondo». Esteso pressappoco tra le città di Memphis e Vicksburg (non va quindi confuso con la foce del fiume Mississippi in Louisiana), il Mississippi Delta ha generato una parte considerevole dell’immaginario tradizionalmente legato agli ex Stati confederati. Bayous, piantagioni, ville maestose in stile neoclassico e musica blues sono parte integrante di questa terra, che negli anni è andata anche funzionando da metonimia geografica della vita placida dei latifondisti meridionali, lì residenti un tempo. «Quando fa buio nel delta/è allora che ho il cuore leggero», si legge nel testo di Darkness on the Delta, uno standard jazz che dipinge la regione come un paradiso terrestre fatto di cotone e canzoni che si levano dai campi al tramonto, perpetrando uno stereotipo le cui origini sono nella buona società bianca e possidente.
Nella realtà, il Delta è anche un luogo che più di altri ha accolto le atrocità della schiavitù, della Guerra di secessione, e, in seguito, della segregazione, della quale un simbolo esemplare è la terribile prigione di Parchman, luogo che per molti detenuti (e specialmente per quelli afroamericani) equivaleva a una sentenza di morte, come racconta, benissimo, Jesmyn Ward in Canta, spirito, canta.
Una sostanziale ambiguità
Proprio Parchman fa una fugace apparizione nelle prime pagine di Nozze sul Delta (ora ritradotto da Simona Fefé per Minimum Fax, pp. 360, € 18,00), quando la quiete serale viene disturbata dall’abbaiare distante di una muta di cani all’inseguimento di un fuggiasco. Un dettaglio secondario che serve a rivelare la strategia retorica utilizzata da Eudora Welty in quest’opera da noi quasi del tutto dimenticata, riportata finalmente in vita nella sua interezza in questa nuova traduzione, che fa onore alla raffinatezza stilistica e alla complessità formale del testo inglese. Un’ambiguità sostanziale governa queste pagine. In apparenza, il romanzo aderisce in maniera acritica alla rappresentazione del delta come palcoscenico da favola sul quale l’aristocrazia terriera mette in scena le mollezze mondane delle proprie vite agiate. Il paragone più immediato è senza dubbio con quell’ingombrante elegia del vecchio Sud che è Via col vento; e in effetti Welty, dotata di una brillante verve comica, dissemina nella narrazione un gran numero di piccoli sketch che ricordano il tono leggero delle battute iniziali del romanzo di Margaret Mitchell. L’atmosfera di insistita frivolezza che avvolge la storia è però turbata in maniera sottile ma persistente da una serie di piccoli dettagli che rimandano a un Sud più crepuscolare, e che suonano come stonature quasi impercettibili in un’esecuzione altrimenti impeccabile. Piuttosto che a una partitura musicale, è appropriato accostare la struttura del romanzo alla composizione di un’immagine: lo dimostrano i ritratti del Mississippi rurale degli anni Trenta che Welty, anche appassionata fotografa, ci ha lasciato.
Dalla fotografia alla scrittura
Per un lungo periodo della sua vita la fotografia ebbe una grande importanza, tanto che spesso – per esempio in uno dei suoi racconti più famosi e rappresentativi, «Com’è che abito all’ufficio postale», proprio dalle immagini catturate ricavava ispirazione per la scrittura. Nozze sul Delta somiglia a una grande fotografia virata seppia giocata tutta su di un doppio piano focale: un contrappunto simbolico continuo lega gli elementi in piena luce e quelli che vengono consapevolmente tenuti in ombra. Ciò che è relegato sullo sfondo dialoga, in sordina, con il chiasso messo in ribalta. Welty stessa, sempre attraverso la fotografia, ha sostenuto che la materia narrativa della sua opera è da intendersi come il prodotto ideale di un’esposizione multipla, ovvero della sovrapposizione di due immagini diverse dello stesso soggetto.
In primo piano, una trama polifonica (o meglio, cacofonica) composta da un coro numerosissimo di voci tutte diverse tra loro e minutamente intrecciate. Il centro della narrazione si muove da una coscienza all’altra attraverso transizioni morbide, praticamente impercettibili, in un montaggio fluido e ininterrotto di punti di vista eterogenei. La storia è introdotta attraverso gli occhi di Laura, che, dalla città, va in visita ai parenti nel Delta. Arrivata a destinazione, la bambina viene immediatamente travolta, e con lei il lettore, dall’incredibile confusione della famiglia Fairchild, colta nel bel mezzo dei preparativi per il matrimonio di Dabney, adolescente capricciosa e volitiva promessa a Troy, il ruvido sovrintendente della piantagione. Viene così a crearsi un accumulo di situazioni e personaggi che sgomitano per imporsi, urlano, si rincorrono, mangiano e parlano senza sosta: un vero capolavoro strutturale, nel quale Welty ci tuffa senza preavviso e senza il minimo appiglio.
Distinguere la verità dal sogno, dal desiderio o dal gioco infantile diventa un’operazione più futile che impossibile; è necessario, invece, abbandonarsi allo scorrere impetuoso del racconto e farsi condurre fino alla conclusione, improvvisa e stranamente sottovoce. Sullo sfondo di questa superficie strabordante di vita, un mondo cupo, fatto di ombre. Dietro alle esibizioni dei Fairchild si nasconde infatti una fantasmagoria di spettri reali e metaforici, rappresentazione dell’animo gotico inseparabile dalla letteratura del Sud. Spuntano, spesso e senza preavviso, i fantasmi della guerra civile, tra i quali lo spirito di una donna che grida il suo dolore per l’amato, che non ha mai fatto ritorno dal fronte («Evitiamo di farla piangere alle mie nozze», ordina Dabney). La presenza sinistra della schiavitù viene sottolineata dai modi tirannici con i quali vengono trattati i servitori e dal sangue versato da un riottoso lavoratore nero in una scena che, rapida come un battito di ciglia, è un vero e proprio messaggio subliminale nell’idillio nuziale. Nonostante l’imponenza delle figure femminili, che sembrano dominare sugli uomini della famiglia, si avverte il fantasma silenzioso della sopraffazione di genere: forse viene commesso uno stupro; forse almeno una delle protagoniste è vittima di abusi domestici sottaciuti.
L’opera di Welty è stata spesso ingiustamente accusata di tralasciare i lati più oscuri del Sud e di mirare a una rappresentazione astratta e senza tempo; ma come dimostra l’affresco intricato delle Nozze, pervaso dalla presenza sfocata ma concreta della storia e della violenza, l’anima più cupa della regione non è dimenticata, viene piuttosto nascosta in bella vista. Non a caso, in uno dei suoi saggi, «Place in Fiction» del 1956, Eudora Welty ha scritto che un romanzo e la sua ambientazione sono tutt’uno, un intrico di cui la storia del matrimonio dei Fairchild è un esempio brillante. Situato alla convergenza dell’influsso generativo del Mississippi, il «padre delle acque», e dello Yazoo, «fiume della morte», Nozze sul delta fonde con maestria le due anime della storia e del suo set, restituendo un ritratto del Sud che mai viene meno alla sua tenebrosa complessità.
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