Etkind, tradurre il Don Juan di Byron in un campo di lavoro sovietico
Ogni anno la Byron Society organizza un convegno estivo in uno dei diversi luoghi in cui il più cosmopolita dei poeti inglesi abbia vissuto almeno per qualche tempo – che è anche un bel modo per far viaggiare studiosi squattrinati a un costo quasi abbordabile. Nel ’20 sarebbe stato il turno di Salonicco, saltato per via del Covid; e nel ’21 neanche si è provato a organizzare qualcosa. Questo era l’anno del grande ritorno e, eccezionalmente, l’incontro era previsto in un paese che Byron, in realtà, non aveva mai visitato: la Russia, dove sono ambientati i canti IX e X del Don Juan. Così una quarantina di noi stranieri ottimisti abbiamo risposto al «call for papers», che scadeva il 15 febbraio, solo per ricevere, il 2 marzo, la stringata comunicazione che, «per cause di forza maggiore», il convegno era cancellato: la mail si chiudeva, castamente, con un appello alla speranza «to make this world better through poetry and culture» – parole che in qualsiasi altro contesto sarebbero state vuota retorica, ma stavolta non l’erano affatto.
Byron, si sa, ha furoreggiato in tutta Europa almeno fino a inizio Novecento. Ma forse solo in Russia la sua immensa influenza è stata quasi esclusivamente benefica. Solo Puškin ne ha appreso la lezione senza farsi sopraffare, l’ha imitato senza scimmiottarlo. L’Evgenij Onegin sarebbe impensabile senza il precedente del Don Juan: eppure è tutt’altra cosa, più moderna, senza per questo che il Don Juan (Virginia Woolf lo considerava «il poema lungo più leggibile che sia mai stato scritto») sia invecchiato di un giorno. E dire che Puškin – a differenza della letteratissima Woolf – non poteva goderselo nella sua variegata leggerezza, lo leggeva nella traduzione francese in prosa di Amédée Pichot, corretta e noiosetta. Ma è la via del genio… Tanto che viene da chiedersi: gli avrebbe fatto altrettanto bene, una traduzione per brio e vivacità all’altezza dell’originale?
Se lo chiederanno anche quelli che avranno la fortuna di capitare sul luminoso racconto di Efim Etkind, La traduttrice (tavole di Frans Masereel, traduzione di Giulia Gigante, Milano, intransito, pp. 54, euro 14,00) – il cui titolo originale, Dobrovol’nyj krest (1994), cioè «una croce volontaria», probabilmente è tolto proprio da un verso dell’Onegin (cap. VIII, st. 13). La «croce» di cui si tratta è quella che Tat’jana Gnedic (1907-’76), studiosa di letteratura inglese e poetessa – espulsa dall’università per le sue origini nobiliari (era una bisnipote del primo grande traduttore russo dell’Iliade… buon sangue non mente!), poi condannata, per sua stessa stravagante ingenuità, a dieci anni di rieducazione in un campo di lavoro – prende su di sé traducendo in prigione l’intero Don Juan, duemila e passa ottave e neanche una rima male azzeccata, neanche un verso indegno del ritmo divertito di Byron: come se, quanto più squallore e privazione la circondassero, tanto più la poesia che la traduttrice faceva rinascere in un’altra lingua sprizzasse libertà e gioia!
Non voglio guastare al lettore l’incanto della voce di Etkind (che fu amico di Solženicyn e Brodskij) spingendomi troppo nelle pieghe del suo racconto: che è anche una testimonianza, una storia vera e durissima, tragica e comica al tempo stesso, non scevra di ironia («il premio Stalin… Quello me lo avete già dato») ma tutta percorsa dalla dolcezza di una stupefatta gratitudine. C’è una pagina, che qui non rivelo, che mi ha spedito a rileggere uno dei primi racconti di Borges, Il miracolo segreto (in Finzioni), la storia di un immaginario scrittore praghese, un autore irrealizzato cui è concesso – già davanti al plotone di esecuzione – che il tempo per un anno s’arresti: quell’anno fuori dal tempo necessario perché egli ricostruisca e completi nella memoria l’opera incompiuta che giustifichi la sua vita. A Borges, senza dubbio, La traduttrice sarebbe molto piaciuto; e sarebbe piaciuto molto anche a Byron (che è lode forse ancora maggiore): per la sua bella assurdità e l’umanità struggente. Ma Puškin, che a suo tempo aveva amato l’Omero del suo (di lei) trisavolo, come avrebbe salutato il Don Juan della Gnedic? L’Evgenij Onegin ci avrebbe perso o guadagnato, da un tale ‘precedente’?
Una parola, infine, per le xilografie di Frans Masereel (1889-1972) che ornano il libriccino e lo rendono anche un oggetto così prezioso. Per forza di cronologia il grande illustratore belga, prediletto da Thomas Mann e Stefan Zweig, non può averne realizzato apposta le tavole. Luca Sanfilippo, l’editore – che con questo libro inaugura la «Collana Masereel» – le ha selezionate da altri libri illustrati da Masereel e il pastiche funziona benissimo, quasi che i legni avessero misteriosamente preceduto la vicenda che ora illustrano: un ennesimo miracolo segreto!
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