Eterologa a pagamento, bocciata la Lombardia
Intervista a Filomena Gallo, segretaria dell'associazione Luca Coscioni «Il Consiglio di Stato ha riconosciuto la discriminazione economica delle coppie con diverse patologie. È uno dei divieti ideologici che il parlamento deve rimuovere. Prima che lo faccia della Consulta»
Intervista a Filomena Gallo, segretaria dell'associazione Luca Coscioni «Il Consiglio di Stato ha riconosciuto la discriminazione economica delle coppie con diverse patologie. È uno dei divieti ideologici che il parlamento deve rimuovere. Prima che lo faccia della Consulta»
Accedere alla fecondazione eterologa non può essere più oneroso dal punto di vista economico che accedere a quella omologa. Lo ha ribadito il Consiglio di Stato della Lombardia accogliendo il ricorso dell’associazione Sos Infertilità e bocciando l’approccio ideologico della giunta Maroni che costringe le coppie sterili che hanno bisogno di gameti esterni a pagare tra i 1.500 e i 4 mila euro, mentre per la tecnica omologa è previsto solo il pagamento di un ticket molto più ridotto. Il Consiglio di Stato impone al Tar di fissare «in modo sollecito» un’udienza pubblica per ritrattare nel merito la questione alla luce di questo pronunciamento. Una sentenza che non sorprende l’avvocata Filomena Gallo, segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, protagonista di quasi tutte le battaglie condotte davanti ai giudici italiani e non solo contro la legge 40 del 2007. «Si assiste a tentativi continui di difendere divieti che non esistono più – commenta Gallo – smantellati in questi anni da 33 sentenze di tribunale e due giudizi della Corte costituzionale. È la politica ciellina che vuole introdurre altri deterrenti, e quello economico è il più discriminante».
In generale come si sono adeguate le regioni all’ultima sentenza della Consulta che, esattamente un anno fa, ha abolito il divieto di eterologa?
La prima regione che ha cercato di dare risposte alle coppie sterili è stata la Toscana prevedendo l’accesso nel pubblico. Poi, nel settembre 2014 la Conferenza delle regioni ha emanato un documento per consentire l’accesso pubblico dietro pagamento di un ticket che ciascuna regione, in base alle proprie risorse, avrebbe dovuto stabilire. Purtroppo in questo documento è stato anche introdotto per la donna il limite di età di 43 anni. Il che è già in contrasto con legge 40 che parla di «età potenzialmente fertile», diversa da persona e persona. Da allora, tutte le regioni hanno definito un ticket, tranne la Campania. Ma la Lombardia nel farlo ha stabilito una discriminazione in base alla gravità della patologia: se sei infertile paghi un ticket, se sei sterile paghi l’intera Pma.
Il Consiglio di Stato impone al Tar Lombardia, che nel 2014 aveva rigettato la domanda cautelare delle coppie che hanno fatto ricorso, di fissare un’udienza in tempi brevissimi considerando che questa discriminazione che non è giustificata sotto nessun profilo. E ammonisce il Tar ricordando che già la Consulta con la sentenza 162 sull’eterologa ha eliminato queste discriminazioni. Insomma questo divieto non ha base normativa ma solo ideologica.
Anche il limite di età di 43 anni, dunque, dovrebbe essere rimosso.
Infatti a fine mese discuteremo davanti al Tar del Veneto questo limite sulla base del ricorso presentato da una coppia che si è rivolta all’associazione Coscioni. In questo caso, la donna ha compiuto 43 anni il mese dopo dell’entrata in vigore della delibera della Conferenza delle regioni, accolta dal Veneto come da tutte le altre regioni. La giunta veneta, però, è andata perfino oltre, imponendo il limite di 50 anni per l’omologa, oltre a quello di 43 per l’eterologa.
Insomma, ogni regione legifera come vuole. Con quali effetti sulle coppie infertili o sterili che vogliono dei figli?
C’è già un federalismo sanitario in generale, figuriamoci con la fecondazione. Nel sud ci sono pochissimi centri pubblici. In Basilicata o in Calabria c’è un solo centro pubblico e uno privato. Col risultato che tantissime coppie sono costrette a rivolgersi altrove. Ma in Campania per esempio sono stati bloccati i rimborsi per le coppie che vanno a curarsi in altre regioni. Addirittura lì non hanno recepito nemmeno le linee guida sull’eterologa della Conferenza delle regioni, il cui vice presidente – e questa è la cosa più grave – è proprio Stefano Caldoro. Per quale motivo il governatore campano prima firma le linee guida e poi non le recepisce?
All’esame delle regioni c’è attualmente l’aggiornamento dei Lea, i livelli essenziali di assistenza, fermi dal 2001. Si prenderanno in considerazione anche le problematiche relative all’eterologa?
La ministra Lorenzin ha inserito nell’aggiornamento dei Lea due patologie che non erano previste, l’infertilità e la sterilità, appunto per garantire l’equità di accesso. In questi anni chi ha avuto la possibilità di accedere alle tecniche nel pubblico lo ha fatto solo in base ai fondi distribuiti alle regioni dalla legge 40, Ma le regioni che hanno pochi centri pubblici e nessuno convenzionato, di quei soldi che utilizzo hanno fatto? Nelle relazioni al parlamento tante regioni non hanno spiegato come hanno usato quei soldi: il Lazio non li ha mai rendicontati.
C’è poi il problema dell’indagine preimpianto, di cui avete parlato nel convegno organizzato dall’associazione Coscioni l’8 aprile al Senato.
Sì, l’unico centro pubblico che effettua le indagini preimpiato per le coppie infertili, limitandosi alla talassemia, è il Microcitemico di Cagliari, a seguito di un ordine del tribunale del 2012, di cui ci siamo occupati noi. Abbiamo diffidato tutti i centri pubblici della Lombardia a rispettare la legge 40 che autorizza la coppia a conoscere lo stato di salute dell’embrione, altrimenti si interrompe un servizio. Ora forse la Mangiagalli dovrebbe cominciare a garantire le indagini, ma non si hanno conferme.
Il 14 aprile la Consulta interverrà di nuovo sul divieto di accesso alla fecondazione per coppie fertili e portatici di patologie genetiche, grazie al vostro ricorso.
L’associazione Coscioni affianca due coppie che possono avere una gravidanza ma, dopo numerosi aborti effettuati in seguito a indagini prenatali che avevano evidenziato patologie non compatibili con la vita, hanno bisogno di diagnosi preimpianto per evitare altri aborti. Ma per fare questo, devono poter accedere alla Pma. È un loro diritto. Tanto che nel 2012 la Cedu ha condannato l’Italia proprio su questo, perché la legge 40 viola i diritti umani riguardo alle scelte terapeutiche. La Cedu ha poi rilevato l’incongruenza delle norme italiane che autorizzano l’interruzione volontaria di gravidanza ma poi vietano l’accesso a tecnologie che prevedono l’aborto.
A seguito di questa condanna il parlamento poteva rimuovere questo divieto ma non lo ha fatto. L’8 aprile abbiamo però lanciato un appello affinché il parlamento eserciti un’azione politica di responsabilità rimuovendo gli ultimi divieti della legge 40, con un atto immediato, invece di lavarsene le mani e lasciare tutto alla decisione della Consulta.
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