Eterne domande sul canone dei Greci
Letterature classiche La personale «Storia della letteratura greca» del Lesky, 1957, ora riedita dal Saggiatore, ci obbliga a confrontraci di nuovo con l’idea di creazione poetica, di ascesa, di culmine
Letterature classiche La personale «Storia della letteratura greca» del Lesky, 1957, ora riedita dal Saggiatore, ci obbliga a confrontraci di nuovo con l’idea di creazione poetica, di ascesa, di culmine
A sessant’anni dalla prima edizione tedesca il Saggiatore ripubblica in un volume unico la Storia della letteratura greca di Albin Lesky (pp. 1202, euro 72,00), che uscì in Italia nel 1962 per la traduzione di Fausto Codino – qui riproposta nella versione rivista da Gherardo Ugolini: in questi tempi dal respiro corto, dove i saperi sembrano evolversi sempre più rapidi e divenire subito obsoleti, questa è già, di per sé, una buona notizia, perché ci ricorda che un buon libro non invecchia mai veramente del tutto. E utilissima è allora la nuova prefazione di Federico Condello, che con grande perizia ricostruisce il contesto storico e culturale che produsse questa Geschichte der griechischen Literatur, facendone un «classico sui classici».
Perché «il Lesky» è un esempio tra i meglio riusciti di quella storia letteraria d’autore che oggi – pur con qualche importante eccezione – è stata generalmente soppiantata dal compendio succinto o dalla miscellanea a taglio tematico, riflesso di un mondo della ricerca sempre più specializzato e parcellizzato. La distanza dalla manualistica più recente si manifesta già a livello di editing, visto che le mille pagine del testo nulla concedono al taglio schematico a cui siamo abituati, e si presentano come una teoria di lunghi, densi paragrafi (53 pagine per il solo Euripide), senza il beneficio del «grassetto» o dei sottotitoli. Una misura che oggi appare monumentale ed editorialmente audace: sorprende pensare che a Lesky la propria sembrava invece «un’opera maneggevole», «un avviamento rapido ma adeguato a chiunque abbia interesse per la letteratura dei Greci».
Un quadro di sintesi
Il suo intento, infatti, era quello di tracciare un quadro esaustivo ma di sintesi: «un’opera che ricerchi la completezza assoluta può esporre con la stessa dovizia di particolari un Cassio Dione come un Tucidide, un Museo come un Omero; ma ciò sarebbe assurdo in un’esposizione che mira all’essenziale». Si pone dunque con forza, per l’autore come per il lettore di oggi, il problema di cosa sia «essenziale» e cosa non lo sia, e di quale criterio si debba scegliere nel compiere una simile selezione. La soluzione trovata da Lesky è, al tempo stesso, ragionevole e fortemente personale, e sta nella creazione di un canone che potremmo definire relativo, basato sul peso avuto da un autore sulla tradizione successiva: «questo libro mette volutamente in primo piano le grandi creazioni che furono decisive per la formazione dell’Occidente», «le opere grandi della letteratura greca, quelle che hanno avuto influenza attraverso i tempi».
«Grandi creazioni» e «opere grandi»; le parole con cui Lesky giustifica il proprio canone spingono a chiedersi: è davvero possibile (e opportuno) stabilire un criterio di selezione oggettivo, che soppianti del tutto la nostra innata tendenza a giudicare in termini estetici? Oppure questa valutazione è destinata comunque a condizionarci? Lesky sembra, in fondo, pensare che sia così. Parlando dell’Orestea scrive infatti: «ai giorni nostri, nel timore pedantesco di abbandonarsi all’infatuazione fuori proposito, si ritiene sconveniente ogni entusiasmo. Ma di fronte a quest’opera dovrebbe essere lecito, anche oggi, parlare di un momento culminante dell’arte umana.
Fra il poco che le può essere paragonato si può indicare in primo luogo la scultura di Michelangelo…». Se la mente del filologo può censurare l’estetica classicista del «capolavoro» e l’idea che esista un «momento culminante», il suo cuore non può che simpatizzare con Lesky.
Del resto, Lesky sottolinea che «la letteratura greca comincia per noi, nei poemi epici, con opere di matura perfezione», mentre «la lirica greca ci appare subito con creazioni della massima perfezione, mai più raggiunta in seguito». La perdita della produzione orale precedente fa sì che Omero sia, al tempo stesso, «una conclusione e un inizio», in una vertiginosa ascensione all’Atene periclea («la classicità greca tocca il suo punto più alto nella tragedia di Sofocle e nel Partenone»), ma che poi sarà in grado di rifondarsi, grazie alla nuova stagione inaugurata dai sofisti, che «con la sua forte spinta verso la razionalizzazione e l’individualismo rappresenta uno dei rivolgimenti più decisivi nella storia spirituale europea».
Tiepido con l’ellenismo
Ciò che viene dopo, a Lesky interessa molto meno, e riceve uno spazio che si riduce progressivamente (la letteratura cristiana viene esclusa in toto). Gli autori ellenistici suscitano giudizi tiepidi quando non apertamente critici (come la «fiamma troppo debole» di Apollonio Rodio) che forse oggi in pochi sottoscriverebbero, mentre Luciano e persino Plutarco – due degli autori oggi più fortunati e più letti – sono liquidati in poche pagine, e si perdono dentro la «massa sconfinata dei prodotti letterari dell’età imperiale».
Lanza: sintesi senza tesi
Nel suo saggio introduttivo, che è una penetrante presentazione delle questioni fondamentali poste dallo studio dell’antichità, Diego Lanza definisce quella di Lesky una «sintesi senza tesi», per l’assenza di chiavi interpretative forti e predeterminate. E proprio il tentativo di porre il focus, più che su una singola tesi, sui problemi aperti, è uno dei suoi tratti distintivi: la bibliografia e le varie posizioni critiche vengono discusse minuziosamente, e Lesky fa proprie le parole di Werner Jaeger: «ciò che veramente importa sono i problemi, e il meglio che possiamo fare è di lasciarli aperti e di trasmetterli aperti alle generazioni future». La discussione filologica più minuta appare come un passaggio forse ostico, ma necessario per arrivare a comprendere il senso profondo di un’opera: «prima di arrivare al nucleo centrale della sua arte, dobbiamo discutere alcuni versi difficili», scrive, quasi scusandosi, prima di abbordare alcuni testimonia su Saffo. Sintesi senza tesi, quindi, ma sorretta da una scrittura incisiva e felice, illuminata da squarci interpretativi e definizioni potenti.
Ha dunque senso ripubblicare questa Storia della letteratura di sessanta anni fa? Sì, ha senso; non solo per il suo significato storico ma anche per il valore che – al netto delle nuove prospettive epistemologiche e delle più recenti acquisizioni – può ancora avere in sé: il lettore colto e non specialista, infatti, farà esperienza di una «lezione di metodo» e vi troverà una guida ideale per districarsi all’interno delle modalità di comunicazione orizzontali, non gerarchiche e spesso impressionistiche, proprie dei nuovi media; gli addetti ai lavori, dal canto loro, potranno compiere un salutare esercizio di distanziamento, che aiuta a sottrarsi a quella implicita visione teleologica per cui la nostra epoca segna sempre un progresso rispetto a quelle precedenti – visione di cui, come peraltro lo stesso Lesky, rischiamo sempre di cadere vittime. Ma soprattutto, spingerà tutti a porsi una domanda basilare, apparentemente banale e ingenua (del resto «non ci sono domande più pressanti delle domande ingenue», come ha scritto Wisława Szymborska), su cosa sia davvero la letteratura greca: in termini di canone, di tempi, di significati.
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