Una strada stretta che scende verso il mare, un cancello bianco, un giardino e la porta sul retro che si apre sulle ortensie blu che lasciano intravedere una casa, nascosta dalla vegetazione. È in questo luogo, punteggiato di ricordi di un passato lontano ma non lontanissimo, che si anima il romanzo di Pierre Adrian, I giorni del mare (pp. 160, euro 22) edito in Francia da Gallimard e in Italia da Atlantide, nella traduzione di Maria Sole Iommi.
Il protagonista, dopo anni di scelte più o meno esotiche, sceglie di trascorrere le sue vacanze estive in Bretagna – nella casa di famiglia. Si tratta della casa delle vacanze della sua infanzia, in cui ritroverà le antiche emozioni in mezzo agli zii, alle zie, ai cugini e ai loro figli; attorniato dalla generazione dei più piccoli, grazie ai quali riscoprirà la felicità che ancora vi regna. Nel romanzo non è tanto l’intreccio delle vicende a catturare l’attenzione di chi legge, quanto la scelta dei luoghi che contengono le vicende. La ruvidezza splendida del Finistère, la punta più a ovest della Francia, con la sua vegetazione bassa spazzata dai venti e una casa accogliente che contiene la memoria della storia della famiglia. I ricordi si rivelano nei gesti della nonna, ma anche in quelli dei giovani nipoti, portatori di un’eredità familiare che si perpetua secondo lo schema dell’inesorabilità del tempo che passa.
La voce narrante infatti ci rivela, grazie al ritmo di quella che assomiglia a una ordinata confessione più che a un flusso di coscienza, quanto le vite si tengano in equilibrio sulla fragilità. Nelle parole di Pierre Adrian questa fragilità non è mai mera consapevolezza della decadenza e della finitudine quanto invece coscienza che anche i più forti hanno bisogno del sostegno dei deboli: «Mai come durante quel viaggio mi sembrò così evidente la fragilità dei miei. Gli anni accumulati, l’età, la morte, la rivelavano. Anche il cuore di mio padre e mia madre poteva essere spezzato e ormai toccava a noi stringerli tra le braccia. I più forti avevano bisogno del sostegno dei fragili. Era senza dubbio questo una famiglia: un viluppo, una torre di Kapla il cui equilibrio precario tiene, costi quel che costi, grazie alla solidità degli uni e malgrado la febbrilità degli altri».

La descrizione della grande casa di famiglia – scenario del suo racconto – diventa la narrazione di quello che fu e che resta stampigliato nelle pareti di questa dimora, come in un’impressione fotografica. In che modo, secondo lei, i luoghi che abitiamo fanno parte della nostra storia? Sono essi stessi personaggi?
Quando ero bambino, certi rumori in casa mi spaventavano. La casa scricchiolava e cigolava, una porta sbatteva nel cuore della notte, il vento fischiava attraverso la soffitta. La casa diventava qualcuno, soprattutto di notte, quando tutti tacevano e dormivano. Mia madre mi invitava a non avere paura. «È la casa che si muove», diceva. Cercando di rassicurarmi, ammetteva che la casa era diventata un essere vivente come tutti noi. Stavamo dentro un corpo più grande di noi. Nel mio libro, la «grande casa», un edificio di granito centenario, è un personaggio fondamentale e l’unico che resta. Gli zii e le zie, i cugini, la nonna, tutti muoiono. La grande casa rimane.
Il suo romanzo si potrebbe definire come il racconto della presa di coscienza della fragilità delle nostre esistenze. Quanto conta per lei la consapevolezza della nostra vulnerabilità?
Il mio è un libro sull’infanzia e sullo spirito dell’infanzia. I bambini rappresentano la fragilità e, allo stesso tempo, una forza immensa. È incredibile ciò che un bambino può sopportare, ciò che può vedere, ciò che può digerire senza dire una parola. Dipendono dagli adulti, ma a volte sono molto più forti di loro. Ce lo dimostrano Comencini ne L’incompreso e De Sica in Ladri di biciclette. Qualunque sia la nostra età, conservare lo spirito dell’infanzia – capacità di stupore e gioia pura, tenerezza e amore sincero – significa anche accettare la nostra vulnerabilità. Non siamo soli; ci sono tutte queste persone intorno a noi, con le loro realtà e sensibilità. Siamo soli e, allo stesso tempo, siamo in tanti.
La voce narrante in prima persona, che è quella del protagonista, si attarda nel canto dell’amore: ora nei confronti della cara nonna, ora in quello del piccolo Jean. Il suo affetto si proietta nei confronti delle età liminali della nostra esistenza. Quali sono i motivi?
Il narratore diventa adulto. Prende coscienza del passare del tempo e della distanza che lo separa dagli altri. A questo proposito, vorrei citare Pavese ne Il mestiere di vivere: «Si cessa di essere giovani quando si distingue tra sé e gli altri, quando cioè non si ha più bisogno della loro compagnia. E s’invecchia in due modi: o non sperando più nulla nemmeno da sé (impietramento, rimbecillimento, ecc.) o sperando soltanto da sé (operosità) – 24 novembre 1938». Il narratore si trova diviso in due, giovane agli occhi degli altri, fisicamente giovane, e allo stesso tempo sperimenta la sua prima vecchiaia con la consapevolezza che il tempo sta passando, con la fine delle illusioni. È avere trent’anni: uno dei periodi più belli della vita, ma anche un periodo doloroso. I volti che abbiamo sempre conosciuto scompaiono, i nostri genitori invecchiano, noi stessi facciamo dei figli. Non resta che amare tutti loro, sapendo che possono esserci portati via in qualsiasi momento.
La temporalità dell’estate bretone del suo romanzo sembra riuscire a riunire i partecipanti a questa «retrouvaille» in uno spazio esterno al mondo, in una cornice altra rispetto all’universo dei mezzi di comunicazione. Perché questa scelta di allontanarsi dal brusio della quotidianità?
Non è necessariamente una scelta. Volendo raccontare la storia di un uomo che torna nella casa dove era solito trascorrere le sue estati, dovevo per forza descrivere il contesto di quel periodo molto particolare: le vacanze di agosto. Agosto è un mese in cui tutto si ferma, in cui nulla di serio sembra poter accadere. Ci si lascia alle spalle le preoccupazioni quotidiane. Non ci sono più notizie. In Francia, il presidente e i suoi ministri sono in vacanza e i media non hanno nulla da raccontare. Agosto è un periodo in cui ci si accontenta della propria vita, senza pensare a quella degli altri. In Rimini di Pier Vittorio Tondelli, anche il giornalista inviato a lavorare nella località balneare durante l’estate finisce per essere coinvolto nel torpore estivo, nelle sue feste, nei suoi corpi, nel suo caldo opprimente. Così, la spiaggia e la casa delle vacanze diventano spazi fuori dal mondo. Regna un’incredibile serenità. Eppure, una minaccia incombe. Agosto è un mese insidioso, che ci fa credere che tutto si fermi, ma è un’illusione. È in estate, per esempio, che i giovani si uccidono. E nella mia vita personale, in effetti, questo periodo che aspettiamo tutto l’anno, l’estate, è stato spesso di una grandissima gravità.
Si ha voglia di accompagnare il protagonista attraverso le pagine del libro; eppure non c’è un plot avvincente a dominare, né tantomeno le gesta di eroi e eroine a catturare l’attenzione. Da dove proviene questa scelta?
Nel mio libro c’è qualcosa dei film di Antonioni e dei romanzi di Pavese o di Marguerite Duras. In effetti, non succede molto, fuorché lo spettacolo della vita. Le persone vivono insieme, sono sole ma sono tante e ognuna ha bisogno della compagnia degli altri. Non ci sono grandi eventi, se non i piccoli rituali d’estate: un pranzo in famiglia, un pomeriggio in spiaggia, un giro in bicicletta, una festa al porto, una vacanza romantica… È questo che mi affascina, quello che il poeta Georges Perros chiamava il «sontuoso nulla». È la poesia delle cose estive, i miti di questo tempo fuori dal tempo. Un giorno, la casa era vuota e sono sceso in cucina dove c’era solo un messaggio scritto sul tavolo: «Sono in spiaggia». Mi piacerebbe si meditasse su questa frase così semplice. È così bella e implica così tante cose.