Essere un’opera d’arte vivente per superare i confini
Al cinema Diretto da Kaouther Ben Hania, « L’uomo che vendette la sua pelle». La regista si muove con discreta naturalezza, capace di districarsi tra le mostre d’arte e quel mondo, ma anche in grado di cogliere la realtà complessa degli arabi in generale e dei rifugiati in particolare
Al cinema Diretto da Kaouther Ben Hania, « L’uomo che vendette la sua pelle». La regista si muove con discreta naturalezza, capace di districarsi tra le mostre d’arte e quel mondo, ma anche in grado di cogliere la realtà complessa degli arabi in generale e dei rifugiati in particolare
Era il 2012 quando la regista tunisina Kaouther Ben Hania si trovava al Louvre e si stava occupando dell’artista belga Wim Delvoye, il quale aveva esposto un’opera singolare: Tim. Tim Steiner stava seduto su una sedia, senza maglietta, e mostrava il tatuaggio sulla schiena, realizzato su disegno dell’artista. Così è nata l’idea di L’uomo che vendette la sua pelle. Sam un giovane siriano, perdutamente innamorato della sua ragazza, si ritrova senza colpa prima imprigionato, poi costretto a fuggire clandestinamente in Libano, dove vive piuttosto malamente e senza prospettive.
Avendo fatto dello scrocco alimentare ai vernissage delle mostre una chiave di sostentamento, conosce Jeffrey Godefroy, un artista famoso e autorevole che gli propone l’affare. Lui diventerà un’opera d’arte vivente con il visto di Schengen tatuato sulla schiena, potrà così arricchirsi e girare il mondo, a partire da Bruxelles dove nel frattempo la sua ragazza si è trasferita dopo il matrimonio con un funzionario del regime. Sam ci pensa e accetta il contratto dalle clausole infinite, marcato stretto da Soraya, l’agente di Jeffrey, e un bodyguard secondino. Naturalmente il fatto provoca reazioni contrastanti, c’è chi dice che lui abbia venduto la sua dignità, è boicottato dalla resistenza antiregime, anche la madre mostra perplessità, diventa un caso, ma uscire da quella situazione per lui è ormai quasi impossibile.
CERTO, forse è più straordinaria la storia raccontata che il film in sé, ma non mancano momenti piuttosto efficaci. Lo scarto tra chi nasce nella parte sbagliata del mondo e chi invece ha avuto la fortuna di nascere in quella giusta. Il mondo dell’arte che si muove su parametri economici ormai da delirio e le questioni morali che attengono alla dignità dell’uomo. I pregiudizi occidentali che di fronte a un mediorientale hanno reazioni decisamente scomposte. Sullo sfondo il conflitto siriano, fratricida e internazionale. Presentato a Venezia, dove il protagonista Yahya Mahayni ha vinto come miglior attore della sezione Orizzonti (scherza la regista: «Ho capito subito vedendo il provino che sarebbe stato in grado di reggere un film sulle sue spalle»), ora approda sui nostri schermi.
MONICA Bellucci è la perfida Soraya, manager incapace di qualsiasi sussulto umano, Dea Liane è la ragazza dagli occhi chiari che ha fatto perdere la zucca a Sam, e non scherzano neppure gli occhi di Koen De Bouw, segnati dal kajal, che interpreta l’artista, pronto a sposare tecnologia e interazioni per raggiungere i suoi scopi, provocatori e milionari. La regista si muove con discreta naturalezza, capace di districarsi tra le mostre d’arte e quel mondo, ma anche in grado di cogliere la realtà complessa degli arabi in generale e dei rifugiati in particolare (si accenna anche a quelli che rischiano e spesso trovano la morte per raggiungere l’Europa). Il personaggio di Sam è lì, in mezzo a tutto, frastornato dall’hotel, dal caviale e dallo champagne, incapace di cogliere la fortuna farcita di contraddizioni che lo ha colpito, come se tutto fosse stato deciso da cupido e non dagli uomini.
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