Visioni

«Essere indie, un grande lavoro sulla libertà»

«Essere indie, un grande lavoro sulla libertà»

Intervista Il ritorno dei Tre allegri ragazzi morti si intitola «Inumani», dove collabora in due pezzi anche Jovanotti. «Ci sono dentro tanti luoghi che abbiamo frequentato, c’è il rock, un certo tipo di pop, il reggae, qualcosa che va sul funk»

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 16 marzo 2016

È l’ultimo disco della trilogia del trio di musicisti mascherati. I Tre Allegri Ragazzi Morti, Inumani, appena licenziato dalla Tempesta dischi.  Con Paolo Baldini alla produzione e registrato nella loro città, Pordenone. La band dopo più di vent’anni di carriera è uno dei riferimenti dell’indie italiano. A prima vista il titolo potrebbe sembrare carico di scetticismo, ma è solo un riferimento simbolico per rappresentare un’altra umanità. A risponderci è il frontman Davide Toffolo che è anche un geniale fumettista: «Il titolo è un omaggio ai fumetti americani anni ’60 disegnati da Kirby, dove racconta di questa popolazione umana ma diversa, più evoluta, vivono nascosti ma per esempio sono più attenti all’ecologia. Inumani per dire postumani».

Per essere una band di tre uomini, il disco è molto al femminile: «Il punto di vista femminile è interessante anche narrativamente parlando, di fatto ogni tanto scrivo al femminile. Non so se ci sia una ragione precisa perché il senso dei dischi lo capisco sempre più tardi». Non manca la tecnologia, che però sembra sempre in bilico fra l’essere buona o cattiva: «Sono uno del secolo passato, per me la condivisione dei dati, la possibilità che chiunque sappia come sei fatto, è difficile da digerire. D’altro lato, però, negli anni ’80 c’era l’utopia di banche dati accessibili al pubblico com’è diventata ora la musica. Ho delle reticenze legate alla mia dimensione anagrafica, in cui la libertà prevede anche il segreto, allo stesso tempo vengo dal punk che aveva il motore nel do it yourself. In questo momento la tecnologia ha reso la musica non più centrica, l’accesso alla produzione, all’invenzione, è molto più diffusa. La situazione è eccitante perché la possibilità di creare è molto più alta di quella che si aveva vent’anni fa. La musica ora arriva nei modi più strani però quando si accende, anche con investimenti bassi, è difficile fermarla. E ogni anno succede che qualcuno, nell’indifferenza dell’industria, parte e cammina con le proprie gambe». Più di altre volte i TARM hanno giocato con sonorità diverse, come se il disco fosse una summa dei lavori precedenti: «Ci sono dentro tanti luoghi che abbiamo frequentato, c’è il rock, un certo tipo di pop, il reggae, qualcosa che va sul funk. L’abbiamo immaginato come la fine di questa trilogia ma anche l’inizio dei TARM 2.0, nel senso che il disco nelle sonorità va oltre quei primi due dischi».

Come potrebbe essere spiegata la trilogia a chi non ha mai ascoltato nessuno dei dischi? «È la possibilità di viaggiare con la nostra creatività, è un lavoro sulla libertà, su musicisti che si approcciano in maniera differente a quello che finora hanno fatto. Spesso chi fa questo mestiere è schiavo dei suoi precedenti, anche gli ascoltatori molte volte hanno una dimensione conservatrice, qui invece abbiamo cercato di spingere il nostro pubblico verso un’apertura musicale generale». La collaborazione con Jovanotti è riuscitissima. Poco da dire. Che ruolo ha avuto nella collaborazione? «In questo disco ha partecipato solo da cantante, indubbio però che il nostro incontro con la sua visione della musica e con la sua capacità di mettere insieme gli artisti, sono stati molto importante. L’ultima volta che ci siamo incontrati a New York ci ha detto che avrebbe voluto fare i cori su tutto il disco, poi alla fine l’ha fatto su due pezzi».

Ogni collisione col mondo mainstream per i fan potrebbe sembrare pericolosa… «Come al solito non c’è nessun compromesso neanche nell’ipotesi di lavorare con un artista mainstream, l’idea era solo quella di trovarsi sul piano musicale. I nostri concerti continuano a costare pochissimo, abbiamo un rapporto diretto con il territorio e con la gente, ed è anche per questo che ai nostri concerti c’è un forte ricambio generazionale».

Nel disco ci sono anche le collaborazioni di Vasco Brondi, Maria Antonietta, Pietro Alosi, tutti della scuderia de La Tempesta, la vostra etichetta, come una riunione di famiglia: «È la prima volta che condividiamo la nostra musica con altri artisti per scrivere dei pezzi, l’abbiamo fatto con quelli che pensavamo fossero più vicini a noi. La musica indipendente italiana ha una sua natura e in questo disco è abbastanza rappresentata».

Visto che le produzioni de La Tempesta sono fra le migliori dell’indie nazionale, la questione balorda è: cos’è l’indie? «Non è un genere, è una modalità di fare che racconta come la musica abbia smesso di essere proprietà delle multinazionali. Non parliamo più di un prodotto calibrato a uso e consumo della radio. La musica indipendente fino a oggi è quella che ha libertà rispetto al mercato e che ha raccolto a sé l’interesse verso la poetica del racconto e non tanto la forma».

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