Quando il Teatro delle Albe ha messo in scena Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi era il 2014, la leader birmana premio Nobel per la pace nel 1991 si era appena affermata in Myanmar come forza principale dell’opposizione alle elezioni suppletive, l’anno seguente avrebbe vinto le prime consultazioni elettorali libere contro il regime dei militari. Quello spettacolo è poi divenuto un film con lo stesso titolo (2017), non una ripresa filmata ma una rilettura a partire dai propri archivi teatrali nutrita della passione di Marco Martinelli per il cinema, e costruita sulla presenza e sull’aura della sua protagonista, Ermanna Montanari.

Complici di un progetto iniziato nel 1983 e che negli anni è divenuto un punto di riferimento della scena italiana e internazionale, Ermanna e Marco col Teatro delle Albe sono stati e continuano a essere un laboratorio dove crescere per molti artisti delle generazioni successive. E dalla Romagna, a Ravenna dove hanno la loro sede, hanno portato il loro fare teatro in Italia e nel mondo sempre in una dimensione collettiva – che è poi quella della loro struttura – e di partecipazione, alla ricerca del gesto, del sentimento, di una forma politica della scena che sappia essere universale nella relazione col proprio tempo.

PER UN PROGETTO come il loro fondato dunque sulla collettività – spettacoli come Inferno o Purgatorio dove lavorano i cittadini, le residenze, le «chiamate» aperte – cosa significa nella pandemia quell’erosione dello spazio pubblico di cui il teatro ha bisogno e che abita sin dalle sue origini? E che lo streaming casalingo non può sostituire.

Di questo parliamo al telefono con Ermanna Montanari – e pure se un po’ «fuoricampo» con Marco Martinelli – a partire dal loro lavoro sulla figura di Aung San Suu Kyi, ancora più attuale dopo il golpe che l’ha riportata di nuovo in carcere. Forse perché la ricerca artistica nasce anche qui dalla stessa parola teatrale radicata nella Storia e nel presente che attraversa tutto il loro lavoro.

Ermanna Montanari con Marco Martinelli, foto di Claire Pasquier

«Rileggere» la vita della leader birmana da una prossimità dell’esperienza ne illumina in profondità le decisioni più contraddittorie, i fatti che l’hanno esposta a critiche politiche – a cominciare dal rapporto coi Rohingya – svelando le ragioni di una fragilità resa evidente dal ritorno dei militari che ha scatenato in Myanmar un nuovo massacro – pensiamo alla giovanissima attivista Angel, uccisa con un colpo alla testa in una manifestazione, la cui tomba è stata coperta dal cemento facendo sparire il corpo.

«Noi siamo sempre stati con Aung San Suu Kyi in questi anni anche quando la questione dei Rohingya l’ha resa da un’icona dei diritti umani un oppressore» dicono insieme Ermanna e Marco.

Questo suo equilibrio politico instabile e sempre in pericolo di essere rovesciato era quindi per voi già evidente?
La situazione si può vedere da punti di vista diversi, il nostro riferimento è sempre Albertina Soliani che del Myanmar ci aiutati a capire le complessità piuttosto che semplificare come fa l’occidente. Noi crediamo che Aung San Suu Kyi ha continuato a sacrificarsi per evitare violenze peggiori – come stanno accadendo in questi giorni – e l’occidente ha sbagliato a indebolirla di fronte ai generali: lei difende il suo popolo, i giovani che si stanno facendo uccidere in piazza ma non rinunciano a tenere viva la democrazia contro una casta di aguzzini. La questione dei confini, per esempio: è sempre rimasta in mano ai generali, Aung San Suu Kyi non decideva nulla, è andata al potere coi suoi ma i ministeri chiave erano controllati dai generali. Avrebbe potuto andarsene, tornare in occidente accusandoli di non permettere la vita democratica nel Paese, avrebbe di certo rafforzato la sua immagine epica. Invece ha scelto di rimanere in una posizione spinosa. I militari non cederanno perché quel luogo è un pianeta d’oro, a parte l’oppio ci sono grandi miniere ovunque. Aung San Suu Kyi ha cercato di costruire ospedali, scuole, ha sostenuto la cultura, gli artisti, i festival, la sua era una rivoluzione spirituale che per i militari è del tutto risibile.

Il vostro prossimo spettacolo, «Paradiso», vi riporta a Dante: che forma avrà? L’esperienza della «Divina Commedia» rimanda infatti a un lavoro con moltissime persone, attori non professionisti che è ora impedito dalla pandemia.
Abbiamo lanciato una chiamata pubblica online ai cittadini e stiamo procedendo su un doppio dispositivo. Ci muoviamo su vari piani di lavorazione, collaboriamo con l’Accademia di Brera, coi cittadini, però dobbiamo procedere diversamente dalle altre volte: anche questa è una scommessa. Non sappiamo quando debutteremo come saranno le regole, abbiamo un impegno col Ravenna festival quindi la prima dovrebbe essere in estate. È prevista la presenza dei cittadini che però non saranno centinaia come in Inferno o Purgatorio dove avevamo settanta/ottanta persone a sera che arrivavano da tutta Italia e anche dall’estero. Pensiamo di lavorare con dodici uomini che danzano, dodici santi, venti donne, sono numeri piccoli ma non possiamo fare altrimenti, i costumi si devono sanificare, mandare in lavanderia, ci sono i tamponi da fare pure se non ci sarà prossimità. Come luogo per lo spettacolo abbiamo pensato ai giardini pubblici di Ravenna che ci permettono di sperimentare più soluzioni per i corpi nello spazio.

I teatri sono chiusi ormai da mesi, ci sono i ristori ma non si riesce a progettare una riapertura. In Spagna invece si danno sostegni per rimanere aperti, voi cosa ne pensate?
C’è una tendenza a riposizionarsi, noi non lo facciamo, capiamo le esigenze ma lo streaming è una formula che non ci appartiene. Il nostro teatro in questi mesi è sempre stato aperto (i ristori le Albe li hanno trasferiti alle compagnie cittadine giovani, ndr) per ospitare le residenze però non è la stessa cosa che col pubblico. L’impressione è che manca una visione, dare degli aiuti per riaprire è importante anche perché molti teatri con meno di mille persone fanno fatica. Invece si riesce solo a elargire soldi ai teatri nazionali o pubblici e si rimane in una prigione. Appena si potrà noi riapriremo subito, chi è in residenza potrà debuttare, avere finalmente la possibilità di confrontarsi con gli spettatori.

Nel vostro nuovo film, «ER», ripercorriamo la storia delle Albe seguendo Ermanna in una lunga camminata in campagna. I vostri archivi assumono una nuova prospettiva di memoria nel corpo dell’attrice, nel suo volto, in ogni trasformazione dei suoi personaggi.
Premetto che Ermanna non ci ha lavorato, ER era un mio desiderio da lungo tempo, e il nostro archivio che è molto ricco è stato prezioso. Potevo fare un film di sette ore tanto era il materiale a disposizione! La guida è diventata invece quella camminata in campagna che è anche l’unica ripresa che ho fatto nella mia vita per provare una macchina da presa. L’avevamo girata per gioco, era una specie di esercizio, non avrei mai pensato che un giorno l’avrei utilizzata in un film. Questa camminata dell’attrice nella sua vita è anche una discesa agli inferi, nella psiche delle sue creature che ci mostra come un’unica figura ne diviene tante – Ermanna le chiama «il suo condominio». Ne incontriamo sette, dalla madre di Pantani a Madre Ubu – che un po’ si sono chiamate fra di loro e hanno chiamato me. Insieme a Francesco Tedde ci siamo dedicati al montaggio giorno e notte in modo da curare ogni singolo passaggio. Abbiamo avuto anche dei materiali girati da Gianni Celati, quattro ore di un suo film mai montati da cui abbiamo preso la parte dove Ermanna parla con gli asini.