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Essere Eriko Makimura

Essere Eriko MakimuraEriko Makimura

Intervista Jannik Splidsboel racconta la pianista classica e performer giapponese

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 13 giugno 2020

Non si tratta di Essere John Malkovich, ma di inoltrarsi «nei mari estremi» dell’arte di una donna, Eriko Makimura, pianista e performer giapponese in Being Eriko, il documentario di Jannik Splidsboel in questi giorni – il festival chiude il 15 giugno – al Biografilm diretto da Leena Pasanen (visioni gratuite prenotabili sul sito).

«Essere» Eriko quando, specchiandosi in una veduta da una vetrata di un aeroporto, risente momenti salienti della sua storia: lei, una bambina che suona il piano a due anni, che a cinque partecipa alla prima competizione, che lascia il Giappone e studia a Berlino, conosce la Danimarca e l’Europa, e a quasi trent’anni, quando avverte che il vortice dei concorsi internazionali, della disciplina ferreo-sadica cui è stata sottoposta sta per inghiottirla, si dice: esci dal sistema!

Così ora suona il piano a testa in giù, e si vedono solo le mani, lo smalto turchese, un brillantino su una sola unghia, il viso spigoloso in uno spasmo da trance; ora porta in scena la violenza domestica, sfiorata con l’ex-marito, ora racconta con voce agra di sua madre che vediamo aggirarsi algida per il teatro, ora trasforma la rabbia del pubblico – e la propria – in bigliettini dentro palline trasparenti da far saltare forsennatamente nella coda del pianoforte… Ora infrange il repertorio classico, suonando Ann Gosfield con un guantone da baseball o Camille Saint Saëns, tagliandosi in scena i guanti di pizzo, o radendosi le sopracciglia a convertire l’antica usanza del suo Paese in un matrimonio con se stessa, o andando fino in Polonia nei luoghi dell’amatissimo Chopin…

Splidsboel – qui a colloquio – sa danzare con la fragilità incandescente degli istanti di una sopravvissuta alla società – e a un esemplare pranzo gelido con i genitori – cercando respiri con gli amici tra i ciliegi a Kobe, o con Ramona, travesti danese confidente di sempre. Alle calcagna del mistero dell’artista, tra dolore insostenibile e magnifico ristoro.

Raccontaci il primo incontro con Eriko.
È stato a un suo concerto per i rifugiati siriani nel mio Paese, a Copenaghen. Non la conoscevo e mi sono imbattuto in una furia che ha cercato di demolire il pianoforte. Eravamo in una chiesa, molto vicini a lei, e alla fine tutti erano commossi, compreso me. Così sono andato a cercarla nel backstage e poi l’ho incontrata in lacrime, il maquillage disfatto, sembrava Joker; come accade in questi casi, ha detto, devo avere un aspetto orribile, e io: sì, effettivamente, e siamo scoppiati a ridere. Poi siamo diventati amici.

Come ha reagito all’idea di relazionarsi a una telecamera?
Era contenta ma anche spiazzata. Non ama essere ripresa. Pur suonando fin da piccolissima, i materiali video delle sue esibizioni sono rarissimi: lei ama il qui e ora in cui suona, il palco, e non le importa nemmeno di incidere dischi. Da parte mia ho fatto la scelta netta di confrontarmi col presente, consapevole che il passato sarebbe comunque venuto fuori.

Il film ha una struttura fluida di andirivieni e di viaggi…
Mi piace lavorare a progetti che a un certo punto diventano quasi organici. Ho seguito Eriko per quattro anni senza sapere cosa sarebbe successo. Lei ha una esistenza frenetica: all’improvviso ho dovuto decidere se andare in Giappone o in Polonia.

Una sequenza folgorante e psicoanalitica è quella del pranzo familiare. Come ci siete arrivati?
Quando eravamo in Giappone lei non voleva vedere i suoi ma io sentivo la necessità che fossero nel film. Sapevo delle sue difficoltà con la madre, che tra l’altro suona (e ho detto tutto), così le ho proposto di fare un pranzo e abbiamo brevemente discusso della scena. Poi, durante l’incontro, loro si sono di fatto dimenticati di noi. Non potevo crederci. Per una famiglia giapponese è davvero insolito un pranzo così zeppo di conflitti. Una famiglia italiana avrebbe litigato di brutto. Certo, oggi a modo loro i genitori cercano di fare pace, e il padre la paragona a un fiore di loto rimasto intatto oltre le vicissitudini.

A proposito della formazione, per Eriko, come per tante artiste donne, parafrasando Alice Miller potremmo parlare del «dramma della bambina dotata»: quale è stata la tua esperienza?
La mia educazione è stata rigida anche se le punizioni corporali erano proibite. Io volevo essere libero e ci sono stati un paio di professori che mi hanno reso la vita dura, tanto che ho chiesto ai miei di cambiare scuola. In più conosco sulla mia pelle cosa significhi il peso delle ambizioni dei genitori. Adesso sono felici, ma quando hanno capito che non sarei diventato un direttore di banca, erano devastati. Così Eriko era costretta tutti i giorni a esercitarsi al pianoforte, anche d’estate, quando sentiva gli amici che giocavano fuori. A Copenaghen tanti sono rimasti toccati dalla scena in cui lei, provando Chopin, si schiaffeggia ogni vota che sbaglia. Ognuno ha la sua storia e trova il proprio modo per andare avanti.

Il film è attento alla fisicità di Eriko, alle sue mani, al viso, agli abiti, come parte della sua essenza; nello stesso tempo la camera crea una intimità dinamica con lei, anche quando affiora il pianto…
Eriko è un’artista a tempo pieno, attraversata da una necessità assoluta anche quando non vorrebbe. Così, utilizzando ottiche vintage trovate a Tokyo, abbiamo cercato di ritrarla in un caleidoscopio. Quel dinamismo della macchina è stato possibile attraverso la fiducia che si è creata tra Eriko e Henrik Ipsen, il direttore della fotografia. Un giorno abbiamo dovuto chiamare un altro e lei si è incazzata. Perché ha bisogno di fidarsi. Con me non ha mai cercato di influire su un’inquadratura. E io ho voluto dare a ogni scena un colore, in base al suo umore, senza mai chiederle: suona questo.

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