Essere Cole Porter
Cole Porter con l’attrice Ruth Chatterton (foto AP).
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Essere Cole Porter

Anniversari/Sessant'anni fa moriva l’autore di «Night and Day» e altre gemme Con Berlin, Gershwin e Kern è stato tra i più importanti songwriter statunitensi. Nella sua carriera ha scritto oltre 800 brani, interpretati da alcune tra le voci più note di sempre, da Sinatra a Ella Fitzgerald
Pubblicato 2 giorni faEdizione del 26 ottobre 2024

Sessant’anni fa moriva Cole Porter, settantatreenne, il maggior songwriter nella storia della musica degli Stati Uniti d’America. Songwriter letteralmente vuol dire «scrittore di canzoni» e in tal senso il musicista e paroliere nato a Peru (Indiana) il 9 giugno 1891 e scomparso a Santa Monica (California) il 15 ottobre 1964 compone oltre 800 brani, risultando il più prolifico rispetto alla triade aurea George Gershwin, Irving Berlin, Jerome Kern, che gli contende lo scettro di re della melodia a stelle-e-strisce. È chiaro che risulta arduo, oltre il piano quantitativo, discettare sui valori estetici o stilare classifiche sul migliore, benché, a evidenziare una priorità, la sostanziale differenza fra Gershwin, Berlin, Kern riguarda il Porter come artista completo: l’unico, come un poeta, a redigere i testi dei brani, con uno stile letterario piacevolissimamente arguto, sorprendente, raffinato, che sa alternare realtà, humour, passione, ironia, che lo tengono lontano dai languidi sentimentalismi, in cui talvolta incappano i pur bravissimi colleghi.

Tra l’altro, forte degli studi in università prestigiose quali Harvard e Yale, incoraggiato dal fervore culturale del New Deal del presidente Franklin Delano Roosevelt negli anni Trenta risulta il primo songwriter a non temere di parlare di sesso nelle proprie liriche come si può ascoltare in Let’s Do It, You’ve Got that Thing, You Do Something to Me o nel capolavoro Night and Day, anche se dovrà per tutta la vita celare la propria omosessualità, a causa del bigottismo diffuso a livello mediatico, con rare eccezioni negli ambienti intellettuali progressisti (nel decennio succitato l’American Communist Party è al terzo posto subito dopo Democrats e Republicans).

ANCORA ATTUALE
Sebbene venga associato a un passato lontano e irripetibile, in quanto a gusti e somiglianze con l’oggi, Porter è ancora un autore molto eseguito (e seguito) nel XXI secolo a partire dai milioni di contatti in rete da quando, nel 2020, l’antologia rimasterizzata Red, Hot & Blue: A Tribute to Cole Porter (1990) è sulle piattaforme: Night And Day (U2) in primis e via via Ev’ry Time We Say Goodbye (Annie Lennox), Don’t Fence Me In (David Byrne), Beguin the Beguine (Salif Keita), It’s All Right with Me (Tom Waits), I’ve Got You Under My Skin (Neneh Cherry), Love for Sale (Five Young Canninbals), In the Still of the Night (Neville Brothers) sono solo alcune delle hit post-modernamente rilette dalle maggiori star rock, soul, folk, jazz, etno e pop, magari adolescenti o addirittura in fasce quando Cole passa a miglior vita. Questi e altri titoli appartengono del resto a un immenso canzoniere e si possono tranquillamente fruire su web radio o fra le ristampe in vinile o in digitale anche da parte di interpreti ormai classici, più o meno ascrivibili al jazz da Frank Sinatra a Ella Fitzgerald: basta pensare che l’incommensurabile Night and Day (1932), in vetta al cosiddetto Great American Songbook, vanta da allora un’infinità di cover da Billie Holiday a Diana Krall, da Mina a Shirley Bassey, da Alberto Sordi a Nicola Arigliano, dai Temptations ai Quintorigo, da Willie Nelson a Bob Dylan.

Cole Porter è anche l’unico tra i massimi songwriter a ottenere ben due biopic per il grande schermo sia pure a distanza di molto tempo: Night and Day (Notte e dì) nel 1946 e De-Lovely (Così facile da amare) nel 2004; i due lungometraggi a colori, ora scaricabili in rete – anche in versioni originali sottotitolate – costituiscono in Italia le maggiori fonti informative sull’autore (mai tradotte ad esempio le utili biografie di Charles Schwartz e William McBrien), pur con il beneficio di inventario della pura fiction, declinata anche nei codici registici del musical, genere a cui lo stesso Porter si rifà grosso modo a metà della fortunata carriera; sì, perché, occorre ricordarlo, lui e gli altri non sono autori di sole canzonette, ma ne scrivono a gruppi, per temi, dapprima per il teatro, in seguito, anche in parallelo, per il cinema: Broadway e Hollywood, ovverosia le due vere arti originali del XX secolo, assieme al jazz e al pop – forme reciprocamente attrattive e condivise dall’estetica porteriana – che vanno a costituire l’immaginario massivo americano, copiato poi in tutto il mondo.

HOLLYWOOD
Notte e dì viene diretto da uno dei grandi maestri artigiani nella Mecca del cinema: l’ungherese Mihály Kertész (con nome e cognome inglesizzati) vanta al proprio attivo decine di regie in tutti i generi forti della Hollywood classica; si pensa a lui come autore di western, drammi, noir – Casablanca resta il suo «masterpiece», tra l’altro con due sequenze musicali memorabili, As Tears Go By e La Marsigliese – mentre pochi ricordano che, fra il 1935 e il 1955, firma ben dieci musical di cui almeno quattro importantissimi nella storia del cinema musicale: Yankee Doodle Danky, Chimere, Il cantante di jazz (remake), Bianco Natale. Notte e dì è una pellicola ottimamente congegnata dal punto di vista del plot narrativo e dell’effetto drammaturgico, ma nell’ottica della veridicità storica risulta soggetta alle ferree regole del Codice Hays: in tal senso la vicenda della love story tra il protagonista e Linda Lee Thomas (Gladys Smith) che si dipana fra corteggiamento e matrimonio (e relativa crisi superata) è fasulla e mistificante, giacché cela la già citata omosessualità di Porter, che come detto, quasi per l’intera sua vita non può essere dichiarata per abietti tabù sociali.

Addirittura a impersonare Cole nel film c’è Gary Grant, le cui esperienze omosessuali, mai rese note, paiono sovrapporsi nel lungometraggio. Curtis, le cui origini mitteleuropee spingono verso un rapporto libero e intelligente con la macchina da presa in almeno un paio di scene, dall’equivoco dei bambini in ospedale al disagio di coppia per via dei rimproveri della moglie (trascurata dal troppo lavoro del compositore anaffettivo), paiono alludere alla condizione Lgbtq+ del protagonista medesimo.

Mezzo secolo dopo tocca a un noto produttore cinematografico – con solo sei regie in carriera, tutti film d’azione – raccontare in Così facile da amare la vita di Porter: Irwin Winkler sceglie Kevin Kline e Ashley Judd nei ruoli di Cole e Linda, lasciando grande spazio alla eccentricità del rapporto amoroso, visceralmente interiorizzata per un breve periodo, nonostante la di lui diversità quasi ostentata nella messa in scena. L’effetto sorpresa, al di là di una ricostruzione baroccheggiante, è la cornice metalinguistica, ossia il film nel film, dove tutto viene architettato per un fantomatico musical su Cole Porter, dove Gabe (Jonathan Pryce) regista dello spettacolo, conduce alle prove un Porter ormai vecchio, stanco, malato, per farsi raccontare gli antichi fasti, a loro volta teatralizzati negli sketch musicali, con diversi esponenti della nuova canzone pop, rock, jazz quali Robbie Williams, Elvis Costello, Alanis Morissette, Sheryl Crow, Diana Krall, Mick Hucknall, Lara Fabian, Natalie Cole; c’è lo stesso Kline che intona e danza Be a Clown, citando ironicamente una scena de Il pirata (1948) girato da Vincent Minnelli con Judy Garland e Gene Kelly vocalist e ballerini.

«THE TOP»
E proprio un anno dopo, nel 1949, il 16 gennaio esce sul New York Times l’articolo Cole Porter Is ‘The Top’ Again a firma Howard Taubman che sintetizza una volta per tutte l’importanza di un musicista che darà ancora il meglio di sé per circa un altro decennio: «Si diceva che le canzoni di Cole Porter fossero per un’élite intellettuale che l’americano medio conosceva solo per sentito dire e che, quindi, era sorprendente che le canzoni colpissero la fantasia del vasto pubblico. Ma la verità è che Cole Porter ‘cantava’ per tutti. La raffinatezza delle linee musicali rappresentava un punto di vista che molti di noi desideravano raggiungere. Le sue melodie, in ultima analisi, avevano un tocco universale».

Taubman ribadisce la voluta assenza di inutili snobismi nelle composizioni porteriane: «Che siano stati allegri o tristi, teneri o capricciosi, hanno avuto la qualità insolita del tocco comune. Se sei interessato alle questioni tecniche, sai che in una canzone come Night and Day ha scritto un ritornello di quarantotto battute invece delle convenzionali sedici battute. Ma il pubblico è indifferente agli ingredienti musicali che contribuiscono alla formazione di una melodia, perché riconosce, attraverso l’orecchio e il cuore, la musica con il suono della verità. Può darsi che il verdetto del tempo segnerà le canzoni di Cole Porter, nonostante la loro patina sofisticata, per la sincerità emotiva di base del costrutto melodico».

Ne fuoriesce un ritratto ancor oggi attualissimo di un Cole Porter fine e colto dai testi sofisticati in grado infine di affrontare la musica «con la serietà di un uomo che rispetta il suo mestiere». Un mestiere frutto di una sensibilità che solo nel 2014 otterrà un risarcimento orale grazie al movimento Lgbtq+ con una targa commemorativa, dedicata alla vita e all’arte del songwriter, posta sulla Legacy Walk di Chicago.

DEPRESSIONE
Cole Porter – autore dunque di musical per il teatro e per il cinema, sotto forma di sequenze di canzoni che però vivono anche di vita propria – va discograficamente vissuto soprattutto da quando il musical classico diventa un genere minoritario, dimenticato, obsoleto e da quando con il long playing a 33 giri si favorisce un’ulteriore popolarità della forma-canzone ormai raggruppabile su album (e nei recital di identica durata) per autore, interprete, temi, strumenti eccetera. Porter viene eseguito o riletto da grandi artisti soprattutto del jazz e del pop allorché l’attività creativa inizia a declinare, fino a spegnersi negli ultimi lustri di vita: Cole, disarcionato da cavallo e costretto all’amputazione della gamba sinistra e a successivi ripetuti interventi chirurgici, soffre di un terribile stato di frustrazione estesa soprattutto al campo artistico; se ad essa si associa poi uno stato depressivo esistenziale si capisce che ormai il Porter allegro, arguto, autoironico non c’è più.

Ma la solare «joie de vivre» è metaforicamente sostituita dai dischi, che confermano il valore artistico unico del songwriter, persino nei momenti in cui cantanti o solisti dalle personalità altrettanto debordanti fanno parlare più di sé che del maestro o del repertorio. Senza voler qui dare voti o distribuire pagelle, si può narrare la fortuna porteriana mediante una scelta di vinili e compact da metà Fifties a oggi, constatando, fra omaggi e tributi, la prevalenza del jazz sul pop (inteso quale insieme di rock, soul, lounge, easy listening, classic song); nel jazz a sua volta prevale il canto femminile, mentre in quello strumentale è il pianoforte in trio (seguito dai fiati in ensemble più numerosi) a regalare opere sopraffine; e tra gli stili, nonostante le strutture dei brani originali vogliano di proposito rifarsi al jazz coevo (ragtime, dixieland, swing) ai primi decenni della frenetica attività compositrice, è con il moderno (bebop, cool, mainstream e, a lato, i crooner) che le canzoni diventano standard abituali per gli improvvisatori americani, trovando adepti anche fra gli europei.

FUORI I TITOLI

Nella storia del jazz dunque, un luogo comune vuole che, al di là dei singoli brani presenti nei repertori di quasi tutti gli swinger e bopper, i dischi fondativi del Porter jazzato siano due, quelli più venduti e dunque maggiormente popolari: Sings the Cole Porter Songbook (1956) di Ella Fitgerald e Plays the Cole Porter Songbook (1959) del pianista Oscar Peterson, due «padelloni» che restano da modello per i successivi riscontri, a partire da quelli immediati (1958-1961) come i delicati Anita O’Day Swings Cole Porter with Billy May e Buddy Cole Plays Cole Porter, i monotematici Music from Cole Porter’s Can-Can del Terry Gibbs Quintet e Benny Carter Plays Cole Porter’s Can-Can and Anything Goes, i due dixieland revival con Cole Porter Ala Dixie di Pee Wee Hunt e Wilbur De Paris Plays Cole Porter. Non va nemmeno scordato che nel 1956 esce la colonna sonora originaria di High Society (Alta società) che comprende i tre maggiori jazz singer di sempre: Louis Armstrong, Bing Crosby e Frank Sinatra – oltre una bellissima Grace Kelly all’uopo canterina – spesso in gustosi intrecciati duetti.

In realtà esistono quattro importanti precedenti, il primo risalente addirittura al 1946 con il cofanetto di 78 giri Artie Shaw Plays Cole Porter della celebre orchestra swing, mentre la progenitura nel canto spetta alla cabarettista afrobritannica Mabel Mercer con Sings Cole Porter (1955) quando ormai è stabile negli Stati Uniti. Ma l’esempio più clamoroso e al contempo misconosciuto è Charlie Parker Plays Cole Porter (1956), uscito poco tempo dopo la tragica scomparsa del geniale alto sax, da ricordare da un lato quale ultima testimonianza ufficiale dell’inventore del bebop e dall’altro come primo tentativo, da parte del produttore Norman Granz di variare una collana di tributi ai songbook americani, in effetti proseguita con tutti gli onori del caso. Un parkeriano di ferro, lo sfortunato Sonny Criss anch’egli altista propone il suo Plays Cole Porter appena un anno dopo.

TRIBUTI
Durante una lunga parentesi in cui il jazz «dimentica» quasi del tutto Porter (con i songwriter in generale) quale «procacciatore» di standard, difficilmente adattabili alle giovani tendenze (free e fusion), non mancano interessanti tributi da parte dei protagonisti degli anni Cinquanta, dalla cantante Julie London in All Through the Night (1965) al Dave Brubeck Quartet con Anything Goes! (1967), mentre durante i difficili Seventies «tornano» Ella Fitzgerald con Ella Loves Cole (1972), il bizzarro Bobby Short (canto, pianoforte, cabaret) in Bobby Short Loves Cole Porter (1971), Earl Hines, il pianista armstronghiano per eccellenza, con Earl Hines Plays Cole Porter (1975), il violinista italo-francese dai trascorsi swing-gitan Stéphane Grappelli con Plays Cole Porter (1976), bissato tredici anni dopo da Anything Goes firmato assieme all’astro nascente Yo-Yo Ma; unica voce giovane l’attrice Cybill Shepherd nel rétro sofisticato Cybill Does it… to Cole Porter (1974).

 

Con la ripresa del jazz acustico e tonale di derivazione boppistica e con il ritorno in scena di swinger o coolster da anni trascurati dallo show business, si arriva persino a «inventare» il disco «homage» o «tribute» quale forma artistica, spesso a più voci dal citato Red Hot + Blue all’antologico Blue Porter: Blue Note Plays the Music of Cole Porter (1991) fino alla raccolta postuma Frank Sinatra Sings the Select Cole Porter (1996). Il songbook di Cole torna insomma a essere valorizzato da parte di figure «storiche», dalle voci (Rosemary Clooney, Dionne Warwick) agli strumenti (George Shearing, Bucky Pizzarelli) o da parte di agguerrite generazioni di improvvisatori americani (Dave Liebman) ed europei (Jan Lundgren, Philip Catherine); tra gli album più celebrati, anche dal punto di vista dell’eloquenza, si riscontrano ancora una volta jazz singer di ambo i sessi (Patricia Barber e John Barrowman) fino a giungere ad anni recenti con due gioiellini, True Love: A Celebration of Cole Porter (2019) di Harry Connick Jr. e Love for Sale (2021) con Lady Gaga e Tony Bennett: la «nipotina» e il «nonnetto», insieme, a chiudere un cerchio.

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